Ci vuole forza, coraggio e libertà per sostenere la battaglia culturale sull’equità fiscale in rete. La Siae, guidata da Gino Paoli, ha dimostrato di interpretare la rivoluzione digitale con gli ingredienti giusti. Del resto, la musica e il cinema sono stati i primi comparti a vivere la profonda trasformazione della “catena del valore” connessa agli effetti dell’economia digitale e dello stesso commercio elettronico.

La reazione della Siae all’aumento indiscriminato dei prezzi della Apple è stata un’opportuna e intelligente provocazione. Regalare ad associazioni benefiche e culturali iPhone comprati a Nizza a prezzi più bassi nonostante un equo compenso più alto è la dimostrazione che sul sistema fiscale in Europa è fuori controllo. Quella della Siae è una battaglia sacrosanta. Una battaglia di civiltà che condivido e sostengo. Qualche giorno fa, insieme a Gino Paoli, Antonio Ricci, Paolo Virzì, Federconsumatori abbiamo ribadito, ancora una volta da che parte stiamo. A fianco della cultura, dell’arte, del talento, dell’equità fiscale. Ma mai a fianco degli elusori. La loro strenua difesa la lasciamo volentieri ai perbenisti 2.0. In cambio di una libertà propagandata e percepita rischiamo di perdere oltre al gettito fiscale anche la libertà vera, quella di scegliere.

Questa battaglia sull’equità fiscale è una battaglia che parte da lontano. Siamo davanti ad un’emorragia finanziaria senza precedenti, livelli di elusione mai raggiunti prima, eppure le multinazionali del web continuano a bloccare ogni tentativo di riforma del modello fiscale che le riguarda. Se ci fosse un modello fiscale funzionante e condiviso non ci sarebbero ruling ed equo compenso.

Il principio da cui bisogna partire è semplice: la catena del valore di numerosi comparti economici è stata completamente stravolta, rivoluzionata, quasi sempre accorciata, dalla cosiddetta economia digitale. Per i nuovi servizi erogati a cittadini e imprese i vantaggi sono evidenti; ma per molti settori economici strategici è diventata necessaria una nuova politica fiscale.

Nel suo complesso l’economia digitale vale quasi il 6% del Pil mondiale e cresce a ritmi mai visti prima con un travaso vero e proprio di risorse dalle imprese tradizionali a quelle digitali. La crescita esponenziale di smartphone (+38,9%), tablet (+69,1%), ebook (+84,6%) è totalmente esentasse ma sembra che i soliti perbenisti 2.0 facciano finta di non vedere. La pubblicità online dal 2005 a oggi è cresciuta, in Italia, oltre del 1000%; nel 2012 le imprese hanno investito, spostando le risorse da giornali, radio e tv (che le imposte le pagano), in comunicazione online più di 3 miliardi di euro tra above the line (pubblicità online) e below the line (web marketing); il mercato dell’e-booking è aumentato del 86%, per non parlare della crescita esponenziale delle piattaforme tecnologiche internazionali sui giochi; il valore complessivo dell’e-commerce in Italia è pari a 11 miliardi di euro, di questi l’80% sfugge al nostro fisco. Musica e cinema sono ormai completamente nelle mani di colossi che si rifiutano di riconoscere agli artisti i compensi per il loro lavoro. Figuriamoci al fisco!

Un mercato complessivo che ormai supera i 25 miliardi, totalmente esentasse. Nel 2012 Google Italy ha versato all’erario meno di 2 milioni di euro a fronte di ricavi pari a 52 milioni anche se il business stimato sulla raccolta pubblicitaria sfiora il miliardo. E questo perché il fatturato sarebbe realizzato “solo” dai servizi prestati alla filiale irlandese Google Ireland che ha incassato, nel 2012, 50 miliardi di dollari. Amazon, sempre nel 2012, ha versato al fisco italiano meno di un milione di euro, Facebook ha lasciato all’Agenzia delle entrate poco più di 100 mila euro. Quando si tenta di discutere di tutto questo, all’improvviso la sostanza (la più grande elusione fiscale della storia del capitalismo) viene coperta dalla demagogia interessata delle multinazionali del web, dei non pochi professionisti e lobbisti interessati (spesso camuffati da blogger), di opinionisti miopi e di politici vicine alle lobbies delle stesse multinazionali.

Mi pare del tutto evidente che senza una giusta ed equa tassazione dell’economia digitale le Ott (over the top), oggi catalogabili di fatto tra gli elusori totali, si sentono legittimate ad operare nel mercato come più conviene. Ricorrendo, quindi, al cosiddetto “double Irish sandwich” che consente loro di pagare le tasse non nel paese in cui producono i loro profitti ma in altri paesi, dal regime impositivo più favorevole, incrementando i loro conti offshore.

Il sistema in cui in cui si trovano ad operare è quello di totale concorrenza sleale, soprattutto nei confronti di tutte quelle migliaia di piccole imprese italiane che tentano di barcamenarsi in un mercato completamente fagocitato dai big della rete. Ripensare all’intera intelaiatura fiscale connessa al funzionamento dell’intera economia digitale è diventato, dunque, una necessità per tutto il nostro sistema economico. Non possiamo più pensare di ricorrere sempre e soltanto agli scontrini richiesti dalla Gdf ai commercianti o alle accise su birra, benzina e sigarette quando ci sono miliardi su miliardi di euro che sfuggono, senza alcuna difficoltà, alle casse del fisco italiano.

Un primo passo verso una regolamentazione dell’economia digitale lo abbiamo compiuto attraverso il ruling, il meccanismo introdotto con la legge di stabilità 2014 che ci ha permesso di recuperare risorse che altrimenti avrebbero preso le solite strade: i conti offshore con sede in paradisi fiscali. Se un qualsiasi imprenditore italiano si comportasse con i conti offshore come uno dei colossi della rete sopra citati sarebbe non solo arrestato la sera stessa ma sarebbe anche messo alla gogna sulle colonne di quelle stesse testate che, quando si tratta di multinazionali americane del web, si celano dietro un interessato perbenismo e dimenticano ogni battaglia culturale sull’evasione fiscale.

Grazie alla battaglia parlamentare fatta in Italia contro l’elusione fiscale, le Ott nel nostro Paese sono passate dai soli 6 milioni di euro di imposte pagate nel 2013 ai 137 (sempre pochi rispetto al business complessivo) del 2014, più i limitati introiti connessi al decreto dell’equo compenso. Non è molto, non è abbastanza, ma è un primo passo verso la giusta direzione.

La profonda trasformazione della società, avvenuta attraverso l’economia digitale, richiede una nuova e moderna capacità redistributiva tra i più forti (le multinazionali) e i più deboli, siano queste piccole e medie imprese, artisti, autori e giovani talenti. È in quest’ottica che va letta la scelta coraggiosa e lungimirante del governo che, attraverso la norma sull’equo compenso per copia privata approvata col decreto Franceschini, dimostra di essere a fianco di chi crea: arte, cultura, talenti. Insomma, dalla parte del mondo che sta cambiando. È un contributo quello dell’equo compenso, che sarà pagato esclusivamente dalle grandi imprese a beneficio di chi, con il proprio talento, contribuisce a ideare e a costruire contenuti. Per questo motivo trovo estremamente grave il caso dei rincari dei prodotti Apple dopo questa norma del governo. È l’ennesima dimostrazione di come le multinazionali del web quando si tratta di pagare un contributo giusto nel Paese in cui producono profitti alzano immediate barricate.

Siamo ormai alla fine del primo mese di presidenza italiana dell’Unione Europa, a settembre nell’ambito della conferenza permanente sul fiscal compact avremo in Parlamento una sessione interamente dedicata a fisco ed economia digitale. Abbiamo il dovere di trovare una soluzione che unifichi economia reale e digitale, perché non possono essere più considerati mondi distinti. Perché libertà della rete non può essere sinonimo di libertà di non pagare le tasse. È una questione di civiltà.

di Francesco Boccia, Presidente Commissione Bilancio della Camera

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