Domani saranno passati esattamente vent’anni dalla morte di Domenico Modugno, un’uscita di scena da vero uomo di teatro per il più passionale degli artisti, in perfetta sincronia con la fine del suo mondo. Una volta il mondo era più concreto. Non c’erano i file, c’erano i dischi, ognuno con la sua orgogliosa identità fatta di lato A e lato B. Negli anni Sessanta, quando ero un bambino che ancora non sapeva leggere, avevo imparato a riconoscere i dischi dal colore del tondino; quelli della Rca erano grigio scuro; quelli della Fonit Cetra erano azzurri.

E poi ce n’era uno che era il più facile da riconoscere, diverso da tutti gli altri, perché era Nel blu dipinto di blu. Nei primi anni Sessanta c’erano i cantanti e poi c’era Domenico Modugno. Lo riconoscevi subito anche dalla copertina del disco, dove quella faccia italianissima sprizzava felicità dalla chitarra, dalle basette, dai baffi (soprattutto dai baffi). Con quelle braccia spalancate e quelle mani aperte, come se Mister Volare stesse davvero per spiccare il volo.

Quando ero un bambino non credevo che Domenico Modugno fosse un cantante come gli altri: sospettavo che fosse un cartone animato o un eroe dei fumetti, e tutto sommato non ero così lontano dalla verità. Il suo mito era nato al Festival di Sanremo del 1958, vittoria subito bissata l’anno successivo con Piove; così quel trentenne di Polignano a mare, che fino ad allora si era fatto notare per i testi in dialetto pugliese contrabbandati in siciliano, prese di peso la canzone italiana e la scaraventò tra le stelle, dove le melodie si intonano ma al tempo stesso si abbracciano e si urlano fino a farle esplodere.

Sulle ali di Nel blu dipinto di blu, la canzone  italiana più venduta nel mondo, Modugno iniziò davvero a volare dappertutto, a cominciare dagli Stati Uniti, a incidere nuovi successi, trovando il modo di vincere altri due Festival. Eppure, pare che all’indomani del trionfo del ’58 avesse sussurrato alla moglie Franca Gandolfi: “È finita”. E lei: “Ma che dici, Mimmo? È appena cominciata!” “No, è finita. Dopo questa vittoria resterò un cantante per tutta la vita. Io invece volevo diventare un attore”. Ma Mimmo si sbagliava, perché la sua grandezza di interprete stava proprio nell’essere anche un attore. Non si accontentava di scrivere la musica e di intonare i testi, ci entrava dentro fino in fondo e questo a pensarci bene spiega perché capitava che si ritrovassero due titoli: Nel blu dipinto di blu e Piove (il titolo del cantante), ma anche Volare e Ciao ciao bambina (il titolo dell’attore).

Più recitava, più era se stesso, e questa doppia natura non poteva sfuggire al teatro; nel 1961 fu Rinaldo in campo, uno dei capolavori di Garinei&Giovannini, e nel 1973 Giorgio Strehler intuì che poteva essere il più straniante dei Mackie Messer nella riedizione dell’Opera da tre soldi. I tempi, però, stavano cambiando. Cinque anni prima dell’exploit brechtiano c’era stata la delusione di Meraviglioso, scartata a Sanremo e solo molti anni dopo rivalutata, al punto che la rilettura dei Negramaro è forse il brano di Modugno più conosciuto dalle nuove generazioni.

Meraviglioso è il rovescio di Vecchio Frac, lo struggente racconto – perché Modugno era anche un cantastorie – ispirato al suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia; ma fu anche, secondo le misteriose simmetrie che segnano la vita degli uomini, l’inizio di un declino inevitabile per chi aveva letteralmente incarnato un’epoca. Negli anni a venire, senza rinunciare alla doppia natura di cantante e attore, Mimmo affronta una lunga traversata nel pop, che comincia con La lontananza, prosegue con Piange il telefono e culmina in un vertice assoluto del kitsch quale Il maestro di violino.

“Allora ci vediamo giovedì signorina?”. “No maestro non verrò più”. “Perché? ha deciso di non continuare a studiare?”. “No maestro”. “Ma perché allora? Perché sono innamorata di lei”. 

Colpito da ictus nel 1984, Mister Volare affronta la malattia da vecchio leone e scopre l’impegno con Marco Pannella, un politico che gli assomigliava non poco. Ma tutto questo appartiene alla cronaca, che non è il suo elemento naturale. Ci sono uomini il cui destino è quello di essere i servitori del proprio mito e il mito di quel signore coi baffi che leva le mani al cielo, comincia a volare, e porta tra le sue braccia l’Italia degli anni Cinquanta, è ancora intatto. Per ricordare Domenico Modugno non bisogna guardare indietro, bisogna guardare in alto.

Il Fatto Quotidiano, 5 Agosto 2014

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