Non è stata una bella settimana per le donne turche. Non che quelle precedenti fossero state un granché, ma un paio di fatti, avvenuti in questi giorni, sintetizzano il degrado progressivo della condizione femminile in Turchia, a una settimana dalle elezioni presidenziali.

Ma veniamo ai fatti. Il più recente è di ieri e si è consumato in tribunale dove una signora che aveva osato indossare i pantaloni e sedere in auto accanto a un uomo, è stata definita dai magistrati “una provocatrice” e pertanto le coltellate ricevute dall’ex marito sono state giudicate con le attenuanti. L’uomo, contro il quale la procura aveva chiesto 15 anni di carcere per tentato omicidio, è stato quindi condannato a soli sei anni di carcere.

L’altro “misfatto”, è avvenuto invece quattro giorni fa ma continua a tenere banco, non solo in Turchia, perché segnala a caratteri cubitali la deriva oscurantista dei principali esponenti della classe politica, che coincide con il partito islamico della “giustizia e sviluppo” (Akp) fondato da Erdogan al governo da dieci anni. Il suo vice premier, anche lui membro dell’Akp, Bulent Arinc, ha consigliato alle donne turche “di non ridere di gusto in pubblico” allo scopo di difendere i valori morali di decenza e castità.

 

Picchiate, violentate e uccise, molto spesso dai loro mariti o familiari, ora le donne turche dovrebbero anche trattenere le risate. In attesa che i talebani afghani gli conferiscano una menzione d’onore, Arinc, probabile futuro vice premier al posto di Erdogan, dopo essere stato ridicolizzato da una valanga di tweet con le foto di donne che ridono, alcune con donne musulmane dal capo velato, ha tentato di indorare la pillola all’opinione pubblica, ma più per paura di vendette elettorali e delle critiche dell’Europa, in cui la Turchia aspira ancora a entrare, che per convinzione. “Qualcuno mi critica estrapolando solo una parte di un discorso di un’ora o un’ora e mezza. Che argomento disgustoso e privo di fondamento!”, ha tuonato all’indirizzo dei media.

Ma questa sua difesa non è bastata a fermare la campagna lanciata con l’hashtag # kahkah (scoppiare a ridere), che ha raccolto ieri le adesioni anche della famosa attrice inglese Emma Watson e dell’olandese Neelie Kroes, commissaria europea per l ’ Agenda digitale. Anche le attiviste del movimento Femen si sono scatenate. Da un anno le donne turche sono costantemente nel mirino dei rappresentanti dell’Akp, a partire dallo stesso premier, che ha più volte sostenuto che “le donne non dovrebbero lavorare ma stare a casa a generare almeno tre figli”. Per questo, quando scoppiò la rivolta popolare di Gezi park, lo scorso anno, le donne erano presenti in massa con slogan che accusavano il premier di sciovinismo.

Un lungo corteo di donne con cuscini sotto il vestito sfilò quindi per la via principale di Istanbul nel settembre scorso quando un teologo del partito emise una sorta di fatwa nei confronti delle donne “incinte che camminano per strada”. Per gli uomini dell’Akp, la morale islamica non viene rispettata quando una donna in attesa di un figlio si mostra in pubblico. Molte reagirono facendosi una sana risata, ma ora anche ridere è segno di indecenza. Dietro questi “consigli”, ci sono però restrizioni importanti e concrete dei diritti conquistati dalle donne in decenni di lotte.

Se una donna turca incinta va dal ginecologo, una nuova legge impone al medico di informare il padre o il marito del suo stato. Per abortire oggi una donna turca ha bisogno del permesso del marito o del padre, anche se è maggiorenne. Il dato più allarmante però è la violenza, molto spesso domestica, che ha fatto nei primi sei mesi di quest’anno già 129 vittime. Questi omicidi spesso sono l’epilogo di un abuso sessuale.

Il Fatto Quotidiano, 2 Agosto 2014

 

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