Affermarsi, ma senza rivincita sul maschio. Battendolo sul filo di lana delle opportunità, che se anche non sono pari, pazienza, anzi meglio c’è più gusto. Mi affascina il meccanismo che certe americane hanno messo in moto, come un virtuoso disconoscimento delle lotte femministe, come tracciare una croce indelebile su quelle storie, vergognandosene perché assai poco femminili e dunque, nel paradosso più sfrenato, da considerare “cose da donnicciole”, esattamente quel che ha sempre pensato il maschio delle pretese femministe sino a un certo numero di anni fa. Oggi è d’attualità la controrivoluzione «tacco 12», vertiginosa altitudine dalla quale osservare con una certa sicumera la differenza sociale tra l’uomo e la donna e porvi rimedio naturalmente con le armi della pura concorrenza di genere, senza menarsela troppo con i dislivelli sociali da piagnisteo, che non fanno femmina in ascesa, appunto.

Temo che queste fanciulle organizzate andranno a sbattere. Ma non solo le americane che hanno dato forma compiuta alla protesta. No. Intendo tutte quelle che credono a questa riscrittura proterva della storia delle donne, come immaginando un ipotetico giorno zero dal quale farla (ri)partire nuovamente. Come una poderosa e organizzata rimozione della memoria, che abbatte alla radice le lotte femministe perché sostanzialmente in contrasto (e non in concorrenza) con il maschio. Ma care giovanotte, se oggi gli uomini hanno ridotto di parecchio (ma non certo del tutto) quell’aria di infastidita sufficienza nei confronti delle donne, a chi lo dobbiamo, allo spirito santo? Se nelle professioni top c’è persino e spesso un testa a testa, a chi o a che lo dobbiamo, alla generosità dell’altro sesso o a un percorso tormentato, sofferente, che si è messo in moto quasi mezzo secolo fa?

Non ho timidezza nel dire che all’epoca certe femministe mettevano anche un po’ paura e ne parlo ovviamente come maschio. Né sarebbe giusto negare che quell’idea di bellezza che ci ispirava non avesse confidenza con l’estetica femminista. Né che non esistesse l’orrida semplificazione femminista=lesbica. Né che certi linguaggi fossero, anche sotto il profilo lessicale, di una difficoltà estrema. Tutti assurdi pregiudizi difensivi che dimostravano in maniera concreta reale il timore del maschio di perdere porzioni di territorio, di quel potere fino ad allora incontrastato.

Se oggi queste ragazze in carriera, o che vorrebbero far carriera, intendono rimuovere o addirittura non riconoscere quel passato, valutandolo come infamante, e che immagino sputino sopra a un’espressione controversa come le “quote rosa”, bene, allora il deficit che resta da colmare si farà incolmabile.

Vi rimando a un fondamentale pezzo di Natalia Aspesi oggi su Repubblica: “Perché non possiamo non dirci femministe”, non prima di ricordare a me stesso, timido estensore tardo-femminista di questo pezzo, cosa ebbe a dire proprio la Aspesi a proposito di quei maschietti che vorrebbero cavalcare le loro battaglie: «Se un uomo si dichiara femminista non c’è tempo da perdere: su le mutande e via».

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