“Salve, il mo nome è Uriel Ferera, ho 19 anni, abito a Beersheva. Ho già trascorso 70 giorni in prigione per aver rifiutato di fare il servizio militare e ora sto per tornarci perché non ho accettato di andare a combattere a Gaza, una guerra che considero ancora più ingiusta dato che è inevitabile colpire civili innocenti essendo la Striscia piccola e densamente abitata”. Inizia così il video che lo studente ebreo israeliano di origine argentina ha postato sul suo profilo Facebook prima di tornare in prigione dieci giorni fa.

Il giorno precedente il suo rientro nella “prigione 6” vicino ad Haifa, l’aspirante ingegnere informatico ha deciso di raccontare perché questa volta, è ancora più “convinto e orgoglioso di questa scelta”. Nel video Uriel sottolinea di essere un ebreo praticante, un uomo di fede, ortodosso, ma la sua è anche una decisione politica: “Come fedele ritengo vada contro la legge di Dio, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza, uccidere, e a maggior ragione uccidere civili innocenti, colpevoli solo di essere nati nel posto sbagliato. Ma mi rifiuto di entrare nell’esercito non solo per non contravvenire alle leggi di Dio, bensì perché il nostro è un esercito di occupazione che viola quotidianamente i diritti umani dei palestinesi, umiliati e anche uccisi solo perché vogliono vivere liberi e avere uno Stato”.

La madre di Uriel, Ruty è una fotografa pubblicitaria nata in Argentina e trasferitasi in Israele dopo aver avuto la seconda figlia, anche lei refusnik (ma le donne non vanno in carcere). Sostiene con convinzione la scelta del figlio: lo sente al telefono ogni giorno per quattro minuti, il tempo massimo concesso. “Quando Uriel è stato convocato per la leva obbligatoria, qui non è prevista l’obiezione di coscienza, lo scorso aprile – dice al Fatto– si è presentato davanti agli ufficiali e ha spiegato di essere contrario alla logica della militarizzazione di Israele e, a maggior ragione è contro l’occupazione, una delle sue conseguenze. Non ha fatto come molti altri refusnik che preferiscono dire di avere problemi di incompatibilità psicologica per ottenere l’esenzione senza andare in carcere. Per lui è fondamentale manifestare il suo disappunto alle autorità anche se ciò significa andare in carcere tutte le volte che viene richiamato”. A ogni rifiuto trascorre 20 giorni dietro le sbarre e le convocazioni possono ripetersi nell’arco di tre anni. “Il suo spirito è saldo, io e sua sorella siamo con lui, anche se molti suoi amici lo hanno ripudiato come traditore”.

Da Il Fatto Quotidiano del 1 agosto 2014

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