In occasione del Festival “Capalbio Cinema”, che anno dopo anno diventa un appuntamento sempre più importante, ho avuto modo di incontrate Pietro Scalia. Per gli appassionati di cinema, Scalia è un nome che non ha bisogno di presentazioni: catanese di origine vive a Los Angeles, due oscar e due nomination, editor di registi del calibro di Oliver Stone, Ridely Scott, Bernardo Bertolucci (ma l’elenco potrebbe continuare con Gus Van Sant, Rob Marshal, ecc.) fanno di questo autore quello che, in un linguaggio un po’ rétro, si definirebbe un maestro.

Invitato alla masterclass ho potuto così approfittare tanto di una lectio magistralis quanto di una chiacchierata privata che mi hanno chiarito alcuni punti molto importanti di come, un certo cinema americano, costruisce alcune fra le sue opere più diffuse al mondo.

In primo luogo, l’editor, che in italiano si continua a definire montatore, non è appunto un “montatore”. Questo termine evoca, infatti, una funzione meramente tecnica di taglia-incolla priva di ogni riferimento al fatto che l’editor è a giusto titolo considerato un autore cinematografico. (La questione non è ovviamente di tipo legale, anche in Italia e nel resto d’Europa il montatore è considerato un autore, il problema è vedere quale sia poi la sua funzione reale). Nel suo enunciato letterale, il concetto non è difficile da afferrare, ma è bene fare alcuni esempi.

Il suggestivo incipit del Gladiatore, sequenza in cui si vede la mano del protagonista che accarezza dolcemente il grano mentre passeggia nei campi, è invenzione e decisione di Scalia e pare che Ridley Scott, definito scherzosamente un sergente di ferro, abbia accolto tanto di buon grado il suo suggerimento, da decidere solo in un secondo momento di mostrare il volto del generale Massimo (Russell Crowe).

Quando Oliver Stone propose agli Studios la prima versione di JFK, pare che il film fosse destinato a durare oltre cinque ore. Ovviamente i produttori mostrarono più di una perplessità. Scalia convinse il regista ad affidargli il compito di riscrivere visivamente il film e Stone, dopo aver assistito alla prima scena rimontata da Scalia, pare lo abbia pubblicamente baciato. 

Ero al corrente della grande passione di Scalia per la musica (Musica) quindi non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di chiedergli qual è il ruolo funzionale che essa svolge nel suo cinema. Qui Scalia si è letteralmente acceso, con grande trasporto e usando parole molto chiare, mi ricorda che nel cinema americano la musica ha sempre avuto un ruolo importantissimo, sin dalle origini, sin da quando le pellicole mute erano accompagnate da vere e proprie orchestre dal vivo. È un sodalizio mi dice, che si è prolungato dai grandi musical, dalle migliori colonne sonore dei film anni trenta e quaranta, ininterrottamente, fino al cinema contemporaneo. Ma attenzione, continua a dirmi, l’uso della musica nel cinema, consiste nel fornire un’integrazione emotiva e narrativa con l’immagine. L’errore che spesso alcuni registi commettono, è quello di pensare che essa possa spiegare la scena; dal punto di vista narrativo, quest’uso della musica significa solo che vi è una carenza nell’immagine e nella sceneggiatura.

Da un certo punto di vista – e questo emergeva anche nella lezione della masterclass – il modo che ha di concepire la musica Scalia, è un vero e proprio tripudio per le orecchie di ogni compositore o musicofilo. Per me, dice, la musica è a volte addirittura il punto di partenza quando devo editare le immagini. Ti faccio un esempio: Black Hawk Down, se ti ricordi, nella scena degli elicotteri, questi avanzano nel silenzio come balene nell’oceano, in qualche modo devo questa idea all’ascolto di un brano molto evocativo che riproponeva il canto delle megattere.

Poco dopo, aggiunge che lui avrebbe la tendenza a rifarsi alla musica già scritta, non a quella composta direttamente sulle immagini e a questo proposito ricorda ancora la scena finale di Black Hawk Down in cui decise di utilizzare un brano cantato in gaelico tratto da un disco della bravissima cantante e compositrice Lisa Gerrard. Non si tratta, dunque, solo di ispirazione, ma di un vero e proprio metodo operativo, per costruire una sequenza seguendo il respiro della musica.

L’idea di attribuire alla musica un ruolo, che si potrebbe definire di carattere strutturale, è, nel caso di Scalia, la diretta conseguenza del suo dichiarato interesse per la musica d’arte; una passione che in più occasioni lo ha spinto a suggerire ai compositori con i quali collabora, riferimenti molto alti come il Götterdämmerung di Wagner o The Planets di Holst, solo per fare qualche esempio.

Come spesso accade ai grandi, Scalia è persona modestissima. Gli chiedo se questo grande margine di libertà sia una prerogativa a lui riservata grazie alla estrema notorietà di cui gode. Mi risponde, che nel cinema anglosassone ed americano, lasciare ampli spazi di intervento (una vera e propria autoritas) all’editor su questioni artistiche e musicali, è una prassi. Prima di concludere la chiacchierata, a testimonianza dell’importanza che il suono riveste in queste opere, mi ritorna in mente la risposta di Scalia ad una domanda posta da un giovane regista del Centro Sperimentale. Io – dice – seguo meticolosamente anche il lavoro di sound editing curando ogni dettaglio; credo infatti che non si debba lasciare nulla al caso.

Occorre però tener presente, che questo punto di vista di Scalia, non deve essere frainteso come una sorta di necessaria overdose musicale, proprio perché lui attribuisce a questa arte un valore espressivo. In tal senso, fa l’esempio di Questo non è un paese per vecchi dei fratelli Cohen. Il film è attraversato da “un’assordante assenza di musica” ma questa “assordante assenza” è affiancata da una ricerca sonora espressiva ed estremamente raffinata.

Personalmente, credo che anche qui ci sia lo zampino del vecchio Wagner, tanto amato da Scalia: forse che i colpi di Sigfrido, intento a forgiare la spada, non sono in quel contesto musica?

Dopo aver salutato Scalia, mi vengono in mente alcune riflessioni. Che io sappia, in Italia i montatori non hanno questo tipo di funzione e l’idea un po’ ottocentesca dell’autore assoluto (il regista) nei confronti di un’opera che per sua natura è collettiva (idea questa condivisa da tutti i grandi teorici dell’arte cinematografica), mi pare produrre non pochi danni. Per quel che riguarda più specificamente la musica, tasto su cui Scalia ha insistito con grande determinazione durante tutta la masterclass, mi pare che, in gran parte del cinema europeo, avvenga l’opposto di quanto da lui auspicato. Qui nel nostro continente, la musica e il suono sono vissuti come qualcosa di sostanzialmente inevitabile (il primo) e di fondamentalmente in più (la seconda) e dunque adoperati entrambi in maniera decisamente descrittiva e naturalistica. La formulazione estrema di questo atteggiamento è rappresentata da quei film in cui la musica (latitante o insignificante per tutto il tempo) viene usata solo in momenti che i registi decidono di proporre al pubblico come topici. Il tutto, con risultati estetici spesso discontinui e non proprio coerenti. Ovviamente esistono delle eccezioni.

L’incontro di Capalbio è stato un grande successo di qualità tematica, d’accoglienza e di pubblico. Personalmente resto dell’opinione che il passaggio in Italia di Scalia avrebbe dovuto muovere un numero maggiore di istituzioni proprio in un momento in cui il Ministro della Cultura invita gli artisti a lavorare gratis. Si potrebbe anche fare, ma occorrerebbe che chi è preposto, si accorgesse per lo meno di quando gli artisti sono a portata di mano.

 

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