Raucedini di trombe incespicano
su volute e involute di escoriate ugole.

Niamey è una capitale dove si prega senza sosta. La notte del destino la chiamano. La preghiera fatta questa notte cancellerà le colpe passate e parte di quelle future. I muezzin sono altoparlanti che funzionano quando c’è la corrente. Sono canti e nenie che seducono e invitano alla preghiera. Presto di mattina si frequentano le moschee di quartiere formato domiciliare. Minareti abbozzati o semplicemente infiltrati dai camion parcheggiati per la preghiera della notte. E poi a mezzogiorno, il pomeriggio e la sera. Uomini che si adagiano sulle stuoie dove scivoleranno più velocemente le preghiere. Questo lunedì finisce il Ramadan. I prezzi dei generi alimentari torneranno quelli di prima del mese di digiuno. A Niamey si prega prima di attraversare la strada.

Sul catafalco un’équipe di comparse: Dio sempre in absentia
… nostra la carne martoriata da mute beatitudini, è una bambola di pezza
vestita di asbesto, raccomandata a mano,
tumefatta carne pret-à-briller.

A Niamey migrano preghiere non esaudite. Litanie incerte di amianto e zainetti di seconda mano. Passa anche Judas. Non bacia nessuno da tempo. I suoi trenta denari li hanno rubati alla stazione assieme ai documenti. Senza soldi e senza meta cerca un ulivo per ripararsi dalla pioggia estiva. Gli sta accanto suo fratello maggiore Jonhson arriva zoppicando per un incidente nel deserto. Dice di arrivare dal Sahara e sua sorella l’aspetta da qualche parte. Era passato due anni fa sulla stessa rotta già cancellata. L’ultima lettera che ha scritto non è mai stata imbucata per mancanza di indirizzo. Il dramma si rappresenta senza spettatori paganti. I registi si ingegnano a confondere la trama. Gli unici attori che conoscono la parte si fermano sul cammino. Niamey è giusto un crocevia.

Perduti così
altrove
in forze centripete, in bagni di suoni, nella seducente fragilità
di un corpo a rendere.
Il pestare ritmico di una preghiera deflora afoni amen.
Solo l’organista si schiarisce la voce ‘adombrato in te
ogni sognoso sole, incendiario il tuo buio di luce’.

Nella città di Niamey se dio vuole si mangia anche oggi. Inch’allah dicono i tecnici di Sonitel dopo aver riparato il telefono. Se funziona anche il net allora c’è la mano di dio. Cade l’aereo poco dopo il decollo. Si perde la linea e salta la luce in città appena possibile. Le musiche dei giovani si cammuffano dietro i cortili dei palazzi della città. La disuguaglianza si nutre di elemosine e di versetti del corano. Tutto si addomestica a cominciare dalle preghiere. Solo è nostro quanto perdiamo diceva Borges. Le bambine sono già trecciate di perle colorate. Coi vestiti nuovi e il trucco agli occhi. I disegni sul braccio destro e le unghie colorate alla punta. La borsetta di pezza e gli occhiali da sole di plastica cinese. A Niamey la festa è ormai vicina, inch’allah. 

Esplode in musica lo splendore
della gloriosa polvere

A Niamey la polvere arriva col vento prima della pioggia. Una gloria piena di polvere come gli imperi che le armi contendono. Francesca col nastro viola ha scritto queste parole. Ci attraversano perché sono di pietra e di carne. Occhi che ispirano candore di ortiche. Siamo polvere, cielo e dio come a Niamey.     

Niamey, luglio 2014 

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