Molti anni fa, rispondendo a un’ascoltatrice di Prima Pagina su Radio3 che lamentava la scarsissima produttività dei nostri parlamentari, opposi un’idea decisamente più comprensiva della loro condizione istituzionale. Dissi che non tutto si risolveva nelle aule di Camera e Senato, allargai il perimetro professionale al lavoro di commissione e poi, conclusi, c’è sempre il ritorno sul territorio dove il singolo deputato avrà a che fare con le esigenze e i bisogni dei suoi elettori. Ricordo che l’ascoltatrice non ebbe una reazione entusiastica a quella mia spiegazione e capii che in qualche misura un sentimento di aperta avversione nei confronti di una certa classe politica stava montando e non si sarebbe più fermato (i motivi, come tutti sapete, non sono mancati, anzi). Qualche giorno dopo la diretta radiofonica, fui molto sorpreso nel vedere che un intellettuale di grande profondità e ironia come Beniamino Placido aveva ripreso la questione sul Venerdì di Repubblica, citando proprio il mio scambio radiofonico. Placido, in una sua prima vita, era stato un funzionario della Camera e ben sapeva del problema. Anche lui, molto più dottamente di me, ragguagliò la signora  sul lavoro del parlamentare, evitò ogni anche più piccolo accenno di qualunquismo e concluse che, se fatta bene e con coscienza, l’esperienza di parlamentare poteva essere davvero molto, molto, produttiva.

Mi sono ricordato di quell’episodio, e poi dell’articolo di Placido, in questi giorni di bufera parlamentare, dove la riforma del Senato è “sotto attacco” di migliaia e migliaia di emendamenti, che ne metterebbero a repentaglio l’integrità e forse anche la felice definizione finale. Se è già difficile immaginare che il tacchino festeggi il suo natale, è del tutto comprensibile che in quella mole cartacea di emendamenti, che il senatore e capogruppo Zanda ha sventolato con un certo fastidio di fronte a Grasso e ai rivoltosi, costituisca l’ultimo avamposto “democratico” prima della definitiva capitolazione. Ed è anche un po’ patetico il fastidio del Partito Democratico per quella strategia difensiva che il presidente del Senato parrebbe non contrastare (accogliendo con un certo favore anche il voto segreto) con l’equilibrio richiesto peraltro anche dal presidente Napolitano (piuttosto, e qui mi rivolgo a voi lettori: chiamare Grasso a rapporto e chiedergli apertamente che l’ostruzionismo non paralizzi il Parlamento è una sottile ma indebita pressione rispetto a una riforma così delicata oppure è la giusta preoccupazione di un capo dello Stato?).

Matteo Renzi non si è smentito neppure in questa occasione. Ha agito con i suoi metodi, vagamente liquidatori, ora minacciando elezioni anticipate, ora banalizzando la battaglia del Senato a bagattella senza spessore, avendo dalla sua i numeri della Camera con cui rimettere a norma tutte le possibili “schifezze”. La situazione forse meriterebbero una profondità maggiore da parte del premier, se davvero considera questa riforma del Senato come la madre di tutte le riforme. Accettare il mare aperto degli emendamenti, naturalmente con i dovuti accorgimenti, potrebbe restituirgli una forza democratica che ora in pochi gli attribuiscono, osservandolo più come piccolo despota in cerca di successo personale. È in gioco la democrazia, quando si cambia la democrazia, o almeno se ne cambiano gli strumenti. E allora perché non riconoscere in maniera leale ed evidente il confronto su questa nuova architettura?

C’è poi un ultimo punto – e qui mi ricollego al discorso iniziale – che non trascurerei. I senatori lavorano, finalmente! Questa mole di emendamenti costringerà tutti a mettere giù la testa, a passare le notti in “ufficio”, a chiamare casa dovendo dire: no cara, questo weekend non posso tornare, dillo tu ai ragazzi. Costringerà tutti a riprendere confidenza con una certa decenza, quella decenza che un tempo era una pre-condizione, ma che nel corso di questi vent’anni abbiamo così svillaneggiato da ridurla a semplice chimera. In questi vent’anni il ritmo di lavoro è stato il seguente: arrivo a Roma il martedì, tarda mattinata, primo pomeriggio. Mercoledì, giornata piena di lavoro, tra aula e commissioni. Giovedì mattina, un pizzico d’aula e un’oretta in commissione ma già con la valigia in mano perché nel pomeriggio si ritorna a casa. Si ritorna sul territorio, per non incontrare nessuno di quelli che ti hanno votato e farsi dunque gli affaracci propri. Perché grazie alla vecchia legge elettorale, che la nuova da questo punto di vista non cambierà o cambierà pochissimo, l’elettore non sa chi è il suo deputato, e il deputato non sa chi è il suo elettore. Nessuno ha scelto nessuno, continuiamo così.

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