Il recente post di Rosaria Iardino sulla recrudescenza dell’Hiv continua a far discutere chi da anni affronta una problematica così complessa e delicata: in esso ci sarebbero inesattezze e errori di approccio alla questione, come il rischio di creare categorie di “nuovi untori” e agli operatori del settore non va proprio giù. Lottare contro la trasmissione del virus, significa “sensibilizzare e informare, non terrorizzare o stigmatizzare categorie o fasce di popolazione più vulnerabili”, dichiarano Massimo Angarini e Domenico Guarini, due volontari della Lila di Milano.

Un altro aspetto problematico, fa notare Sandro Mattioli – presidente di Plus Onlus, l’associazione di persone Lgbt sieropositive – è la confusione presente tra infezione e malattia: “una persona così rappresentativa non può permettersi certi errori. Se dopo trent’anni a Iardino dispiace che il virus non sia stato debellato, a me spiace ancor di più dover sentire discorsi obsoleti”.

Ma quali sono i punti controversi che hanno fatto arrabbiare le associazioni di settore? Innanzi tutto il richiamo alle “categorie a rischio”: “Un termine palesemente discriminatorio per gli uomini che fanno sesso con altri uomini (Msm) e che non tiene conto di anni di lotte per affrancare il gruppo sociale dallo stigma” afferma ancora Mattioli. Essere gay, in altre parole, non è garanzia per la trasmissione dell’Hiv: “Il virus non ha coscienza politica, non decide chi colpire. Ci sono comportamenti che ci rendono più vulnerabili di altri. Vogliamo parlare di questo?”

Su questo punto tornano anche Domenico e Massimo: “Si parla di atteggiamento irresponsabile dei giovani gay, ma non sta lì la causa dell’incremento delle infezioni, il cui sensibile aumento è dovuto anche alla mancanza di informazioni, soprattutto in Italia, per una sessualità consapevole”, parole che coincidono con quelle del presidente di Plus: “In trentatré anni di storia dell’Hiv non c’è mai stato un programma nazionale per affrontare la questione della prevenzione”. 

plus-onlusLa questione, fa notare Mattioli, andrebbe capovolta completamente: “In Italia ci confrontiamo sempre su temi che vengono studiati e valutati all’estero, ma qual è la situazione reale del nostro paese? Esistono studi specifici sul territorio, a cominciare da quelli su gruppi vulnerabili (Msm, popolazione carceraria, sex worker)? Ancora, qui da noi siamo coperti dal punto di vista clinico, ma non si agisce sul piano culturale e sociale”. Aspetto fondamentale, a quanto pare. Per anni lo stigma contro le persone sieropositive è stato un formidabile alleato del virus, in quanto la paura di scoprirsi contagiati allontana il ricorso al test, unico strumento per scoprire il contagio, avviare le terapie cliniche ed evitare quindi nuove infezioni. E poi c’è la questione omofobia, che complica ulteriormente le cose: “La rivista Lancet” dice ancora Mattioli “fa notare come non esista solo una vulnerabilità biologica legata al sesso anale non protetto, sicuramente più a rischio, ma anche di tipo strutturale, ovvero legata a criminalizzazione e stigma che aiutano la diffusione del virus”.

Nelle politiche di prevenzione è fondamentale, inoltre, utilizzare un sistema integrato che preveda l’ausilio sia del preservativo sia di antiretrovirali: “Perché è lecito o auspicabile usare farmaci per evitare il rischio di infarto, ad esempio, ma riscontriamo rigidità quando si parla di Hiv? Che sia il sesso il problema?”. Anche su questo punto divergono le opinioni di Iardino e di Mattioli, che ricorda come una buona prevenzione sia nell’interesse economico di tutti/e: “È meglio dare una pillola a un ventenne e evitargli il contagio, o non farlo e ritrovarselo in ambulatorio e tenerlo in terapia per sessant’anni?”.

Un’ultima inesattezza riguarda la polemica milanese sull’app del comune che non ha incluso i locali dove è possibile avere rapporti sessuali. Domenico e Massimo fanno notare come certe posizioni siano assai miopi: “Non si capisce perché il sesso in sauna dovrebbe essere più rischioso del sesso in casa senza preservativo: il problema non è dovesi fa sesso, ma come lo si fa. Certi luoghi esistono, le istituzioni dovrebbero intervenire attraverso campagne informative mirate dove la parola “preservativo” non sia un tabù”.

Le associazioni che lottano contro il virus, infine, pongono su una questione fondamentale: si tratta di fare la guerra ai luoghi di incontro o di arginare l’Hiv? Un criterio scientifico più efficace dovrebbe combattere, appunto, l’infezione e non le persone. Con un approccio possibilmente più laico, meno soggetto a giudizi moralistici tipici della cultura italiana e realmente a vantaggio di tutti e tutte.

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