Fino a qualche decennio fa in Spagna e in molti paesi europei era ben visto essere prete o militare. I genitori, quando potevano, spingevano i figli verso queste ‘vocazioni’. Se i figli avessero fatto fortuna avrebbero aiutato a mantenere l’ordine spirituale e materiale necessario affinché i governati continuassero ad accantonare fortune senza particolari preoccupazioni. Le bambine contavano poco: anche se qualcuna di loro si faceva suora, il loro destino originale restava il matrimonio. Anche loro contribuivano, in modo importante, a mantenere così l’ordine sociale stabilito; ma il ruolo delle donne era predestinato a restare in secondo piano. Il resto della prole poteva perpetrare il business familiare o guadagnarsi da vivere in altre attività. Il ruolo dello Stato era ovviamente più importante: la cultura era sotto il controllo della Chiesa, la sicurezza in mano ai militari, e l’autorità politica metteva da parte moneta e riscuoteva imposte per perpetrare i propri privilegi. Stiamo tornando ad un modello simile, con uno Stato sprovvisto di politiche sociali?

Nel ‘vecchio’ ordine sociale soltanto una parte della popolazione attiva arrivava a svolgere un lavoro apparentemente produttivo. I lavoratori vivevano per lavorare: il lavoro era la loro vita. Anche se le entrare erano scarse, molti riuscivano a tirare avanti grazie al basso costo della vita e il ricorso all’autosufficienza. Anche così, il valore aggiunto che producevano permetteva di mantenere le classi oziose e improduttive: i politici lontani ‘dal buon governo’, militari e simili che consumavano una porzione eccessiva di ricchezza sociale generata, e preti e altri agenti incaricati di divulgare in maniera interessata la cultura, evitando che nascessero pensieri, comportamenti e credenze diversi dalle loro. Era una società stratificata, con un semplice modello di repressione fisica e intellettuale. Né il lavoro, né il tempo libero erano traguardi sociali. Torneremo a vederci in questa situazione?

Apparentemente la situazione attuale è cambiata radicalmente, ma i paragoni non sempre sono favorevoli, se non analizziamo le condizioni di vita della maggior parte della popolazione. Ai nostri giorni la popolazione attiva spagnola e europea è più ampia, in gran parte per l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ‘riconosciuto’ e produttivo. Ma non c’è lavoro per tutti né per tutte. E risulta che è dieci volte più difficile diventare ‘servo dello Stato’ ossia funzionario pubblico… anche se non è da escludere che tornino a fiorire le vocazioni religiose e militari.

Non c’è lavoro per tutti e le condizioni di vita sono sempre più difficili per la maggior parte della popolazione, visto che l’economia di autosussistenza ha perso di importanza, i prezzi dei beni di prima necessità aumentano, e è necessario avere soldi in quantità sufficiente per poter affrontare le spese, a tratti esorbitanti della quotidianità. Da questo scenario così semplice e restrittivo, anche se non molto diverso da quello che si utilizza per costruire alcuni dei modelli economici più convenzionali, emergono tre soluzioni possibili:

1) Rendere prioritaria la creazione di posti di lavoro (cosa che tutti dicono, ma solo tra i denti)

2) Ridurre la popolazione attiva (forzando l’emigrazione o facendo in modo, nel caso delle famiglie, che i nonni si stabiliscano in casa per badare alla prole o che aiutino come possono)

3) Utilizzare la capacità d’azione dello Stato per stimolare l’attività e la creazione di lavoro, anche se non necessariamente tutta la produzione generata si converte in produzione materiale, né in guadagni sui mercati attraverso i meccanismi abituali di stabilizzazione dei prezzi.

Il problema che deriva dalla terza alternativa è che ci siamo lasciati prendere dalla moda neoliberista che come prima cosa suggerisce e finalmente impone la riduzione del raggio di azione dello Stato come preteso anche se falso rimedio per lo sviluppo economico e sociale. Ciò implica la riduzione delle risorse finanziarie che maneggiano gli Stati, e un utilizzo sempre più parziale di tali risorse, con l’obiettivo di sostenere l’accumulo privato di capitale, il che significa anche mantenere intatti i meccanismi di repressione necessari ad evitare che l’ordine sociale venga alterato. Di questo passo ci resterà lo Stato indigente, solo repressivo, sprovvisto di funzioni sociali che lo legittimino agli occhi dei cittadini. Intanto i gestori degli Stati si dedicano a sbandierare il taglio delle tasse dirette, nonostante aumenti la pressione fiscale.

Suona molto bene e è funzionale a consolidare un modello di società che scommetta sull’esclusione sociale e metta al margine un maggior numero di persone, come succedeva vari decenni fa. Stiamo retrocedendo in troppe cose, anche se c’è molto margine potenziale per progredire. Uno dei problemi più importanti della Spagna e di altri paesi europei è che ci stanno smantellando lo Stato. Nonostante questo, le due grandi superpotenze mondiali mantengono ben saldi i loro rispettivi Stati, anche se dicono il contrario. Sicuramente negli Usa il settore pubblico è molto meno presente che in Europa, ma continua ad avere un’enorme capacità di incidenza interna ed esterna (polizia mondiale, regolatore monetario internazionale), e – soprattutto – controlla e stimola i settori chiave dell’economia, il che avviene in maniera pragmatica con il settore militare e degli armamenti (essenziale per la sua egemonia mondiale e per il modello produttivo sul quale si basa).

In Cina lo Stato è l’onnipotente controllore della situazione politica e sociale (o meglio, un ridotto gruppo di persone controllano questi meccanismi dello Stato), mentre lasciano apparente via libera all’economia, almeno fin tanto che continua a crescere e ad invadere il mondo, per prima cosa con le sue merci e persone, e in seconda battuta con le eccedenze di capitale e con il ‘profumo’ di capitalismo confuciano nel quale la vita si confonde con il lavoro e il lavoro fa parte della vita materiale e spirituale, come succedeva in Europa secoli fa.

Anche ci sono sempre state classi ‘oziose’ – e la loro esistenza ha contribuito a ridurre l’efficacia e l’equità delle politiche pubbliche -, sembra che oggi si voglia associare l’ozio all’assenza di lavoro. Di questo passo, gli ‘oziosi’ diventeranno un esercito sempre più grande e più spaesato. Ma quelli che veramente godono del loro tempo libero saranno sempre meno, perché la ricchezza si sta concentrando e i poteri pubblici, al posto di evitarlo, contribuiscono in misura sempre maggiore alla diseguaglianza.

Forse arriveremo ad una situazione nella quale non resterà tempo per l’ozio, perché non ci sarà necessario né ci sarà bisogno di sostenerlo. Il welfare e le politiche sociali saranno, semmai, un riferimento nei libri di storia: il ricordo del segno di identità europea che non è riuscito a sopravvivere nel confronto con modelli di vita nordamericani e asiatici. Salvo che i nostri governi agiscano in una maniera diversa e costruiscano un altro modello di Stato, in cui la dignità delle persone torni ad essere presa in considerazione. Un modello nel quale ci sia posto per le politiche a favore della coesione sociale. Ma questo richiede un’autentica riforma fiscale destinata ad aumentare le entrate, facendo cassa con i redditi più alti, per evitare che le politiche sociali di carattere pubblico spariscano definitivamente, come sempre stia succedendo in Europa.

Anche se la dottrina neoliberista annuncia il contrario, il progresso dell’Europa è stato basato sull’esistenza di uno Stato forte, con politiche fiscali solide e disposte ad agire a favore della riduzione delle differenze sociali. Se aspiriamo a proseguire su questa strada non sembra conveniente che tutta la produzione diventi produzione materiale spendibile sui mercati con prezzi apparentemente competitivi: una parte dell’attività può, e addirittura deve gestirla lo Stato, creando valore non strettamente materiale, per esempio stimolando la cultura, la qualità della vita, la protezione ambientale o l’uguaglianza di opportunità. Senza cadere in un’idea semplicistica e erronea di lavoro improduttivo, né lasciarci prendere da concetti sbagliati di competitività e austerity, né soccombere davanti alla falsa idea che il settore pubblico sia sempre meno efficiente del privato, una parte di coloro che lavora per lo Stato dovrebbe dedicarsi, per esempio, a potenziare la scienza e la ricerca, e ad evitare il degrado delle condizioni di vita umane e quelle della natura che ci circonda.

Per fare questo, il grosso del guadagno economico generato dalla società civile non dovrebbe andare nelle tasche di ricchi e potenti, visto che la loro idea di ordine, di benessere, di lavoro produttivo e improduttivo, per non parlare di quella di uguaglianza, difficilmente coinciderà con quella della maggioranza della popolazione. E c’è bisogno di una riforma fiscale completamente opposta a quella urlata finora, senza dover andare lontano, in Spagna ad esempio. C’è bisogno anche di maggiore cultura e tempo libero, del lavoro e della solidarietà, anche se tutto questo è difficile da ottenere senza politiche pubbliche.

Oltre ad aiutare a generare attività, occupazione e benessere solidale, la cultura dell’ozio trova spazio nella nostra società, a meno che non la concediamo soltanto alle classi che ne hanno sempre goduto in modo privilegiato. Per questo bisogna cambiare alcuni concetti di cui abbiamo parlato finora, come la crescita economica basata sulla produzione materiale e la distruzione dell’ambiente, oltre che fissare nuovi criteri per una ridistribuzione più equa della ricchezza (dello stock o patrimonio e del flusso o reddito), e anche del lavoro e del tempo libero. Nonostante questo, una società più equa e sostenibile è difficile da immaginare senza disporre della capacità di regolamentazione del fisco e quella pianificatrice dello Stato. Ovvio, di uno Stato e di politiche pubbliche rispettose delle libertà individuali. Al contrario si tratterebbe di repressione, come tornare indietro nella storia, cambiare Continente o non mettere in dubbio la globalizzazione, che dà l’impressione che siamo in troppi e che debba prevalere la diseguaglianza di opportunità e l’esclusione.

Dividersi il lavoro, e per tanto il tempo libero, così come la ricchezza generata e accumulata, può aiutare a vivere meglio il maggior numero di persone, e non solo alcuni privilegiati. Questo è un motivo in più per ribattere alla tesi che cerca di smantellare gli Stati e privarli di uno dei suoi strumenti essenziali: la politica fiscale. Ma ci sono molti politici che hanno in mente un’idea di ordine sociale basato sulle disuguaglianze e l’appoggio della Chiesa, la repressione e la stratificazione sociale. Ci sono troppi politici che la pensano così in Spagna e anche all’interno del governo. Il colmo è che la abbelliscono con un’aurea di neoliberismo funzionale ai propri interessi, e prospettano ora una riforma fiscale tanto retrograda che in caso andasse avanti ci sottometterebbe alla più profonda miseria sociale, lasciando la disoccupazione strutturale come regalo avvelenato a varie generazioni future.

Quando un sistema fiscale riduce il livello di equità, come propone il governo spagnolo, le tasse diventano una forma di carità per i ricchi e un attentato alle condizioni di vita per la maggior parte della popolazione. Se le politiche fiscali perdono il loro carattere redistributivo, quale può essere il passo successivo? Togliere allo Stato la condizione di garante della libertà d’espressione delle persone? Tornare a fomentare le vocazioni militari e religiose pur di mantenere l’ordine sociale? Non possiamo tollerarlo. E’ in gioco il nostro modello di vita, ma anche la nostra dignità. Già veniamo da un lungo periodo di regressione fiscale, tagli alle politiche sociali, precarizzazione del lavoro, disoccupazione, aumento delle diseguaglianza e imbrogli generalizzati in ambito politico, sociale e economico. Se vogliamo mettere fine a questa tortura individuale e collettiva è arrivato il momento di unire le nostre forze al posto di dividerci; gli attacchi non smetteranno, così come dimostra il fatto che ci presentano ora come riforma fiscale una mera modifica estetica di una parte del sistema di tasse che non ha niente a che vedere col progresso sociale in democrazia, né con l’equità sociale.

di José Antonio Nieto: professore titolare di Economia all’Università Complutense di Madrid e membro di econoNuestra

(Traduzione dallo spagnolo di Alessia Grossi)

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