Il settore intimo e moda mare è in perdita rispetto allo scorso anno, con le dovute eccezioni. La prima porta la firma di Sandro Veronesi, fondatore del gruppo Calzedonia (al quale fa capo l’omonimo marchio insieme ai brand Tezenis, Intimissimi e Falconeri). Veronesi ha introdotto il modello “fast fashion” nel settore intimo, beachwear e calze: in un’intervista con il Sole 24 Ore, il maggior azionista del gruppo veneto si è dichiarato ottimista, “perché – ha detto – mentre il settore dell’intimo, nel 2013, ha perso tra l’8 e il 10% del fatturato noi siamo riusciti a mantenere stabili le vendite e a guadagnare quote di mercato”. E i numeri del gruppo di Verona non smentiscono il suo maggior azionista: il fatturato è arrivato a 1,666 miliardi (+11% sul 2012) con un utile netto di 112,4 milioni.  Altro colosso italiano della distribuzione di corsetteria e abbigliamento mare a prezzi competitivi è Yamamay (che fa capo alla stessa proprietà del brand di pelletteria Carpisa) che conta 600 negozi monomarca in Italia e 130 all’estero. Stando alle dichiarazioni dell’AD Cimmino “l’azienda – fatturato 350 milioni – è pronta a quotarsi in borsa, ma non prima del 2015″.

Cosa s’intende per “fast fashion”? La locuzione sta ad indicare “la capacità di alcune aziende di immettere dei capi d’abbigliamento sul mercato in tempi molto brevi”, anche settimanalmente, per poi venderli a prezzi competitivi all’interno di negozi monomarca. In queste aziende c’è una stretta integrazione tra le fasi di design, produzione e distribuzione. Caso emblematico di questo modello, che ha messo in crisi la programmazione stagionale della moda, è Zara, il più grande fashion retailer del mondo, che fa parte del gruppo Inditex (insieme ai brand Massimo Dutti, Zara Home, Pull and Bear, Bershka, Oysho). Secondo quanto riportato dal BusinessWeek, Zara produce circa 450 milioni di capi all’anno e solo nel corso del 2013 ha aperto 110 negozi.

E il “fast fashion” vince anche nel settore intimo/mare.Nel caso di Calzedonia, ad esempio, l’intuizione è stata quella di introdurre un modello di distribuzione basato su un’offerta ampia, diversificata e a prezzi accessibili quando in Italia nessuno proponeva qualcosa di simile”,  ha detto Laura Urbinati, stilista e designer con una forte specializzazione nella moda mare, a Ilfattoquotidiano.it. “Certo, anche la comunicazione ha avuto la sua importanza – ha aggiunto la Urbinati – perchè Calzedonia ha saputo “nobilitare” un prodotto con prezzo basso grazie a campagne pubblicitarie, eventi e sfilate di grande impatto estetico, sulla falsariga del colosso statunitense Victoria’s Secret. D’altra parte, vendendo a quei prezzi il made in Italy è un’utopia e così la comunicazione va ad aggiungere quello che rischia di mancare in qualità”.

Low cost e made in Italy, un’associazione impossibile: i dati forniti dal Sistema Moda Italia confermano che la stragrande maggioranza dei capi venduti nel mercato intimo/mare arrivano dall’estero. Nel nostro Paese l’import è maggiore dell’export, con un trend negativo a livello di saldo tra il primo trimestre 2013 e il primo trimestre 2014 (da 116 milioni di euro a 135). In particolare, il 70% di quello che importiamo proviene da Paesi extra – UE: Cina, India, Sri-Lanka e Bangladesh rappresentano da soli il 50% delle importazioni. “Produrre in Italia mantenendo i prezzi bassi è impossibile – ha proseguito Laura Urbinati – ma è l’unico modo per tenere alta la qualità, perchè la capacità manifatturiera italiana resta la migliore del mondo: il mio, ad esempio, è un marchio di nicchia e i prezzi non sono competitivi come quelli dei brand low cost. Ma non si deve pensare ad alti ricarichi: la scelta di stoffe eccellenti, il costo del lavoro, la specializzazione di certi laboratori artigianali, sono tutte cose che si pagano a caro prezzo, soprattutto in un Paese che non cerca di tutelare né agevolare in alcun modo le piccole medie imprese”.

Il modello fast fashion ha rivoluzionato il sistema moda, andando per altro incontro al ridimensionamento dei redditi e del potere d’acquisto dei cittadini, ma molte questioni restano aperte, soprattutto per quel che riguarda la produzione. Tragedie come quella del Rana Plaza, in Bangladesh possono essere tollerate per pagare poco una t-shirt, un maglione o un costume da bagno? Qual è il reale prezzo da pagare per comprare capi d’abbigliamento a basso costo?