“La festa è stata bella, ma ora la ricreazione è finita e bisogna tornare ai grandi problemi del Sudafrica”. Così Nadine Gordimer aveva commentato, nel luglio del 2010, la fine dei Mondiali di calcio, svoltisi proprio nel suo Sudafrica. Dove l’altro ieri (a Johannesburg), è morta, a novantuno anni, per un cancro al pancreas che aveva rivelato nella sua ultima intervista italiana.

La corruzione diffusa, l’aumento delle diseguaglianze sociali e del divario tra ricchi e poveri, la criminalità scaturita dalla povertà, l’enorme disoccupazione giovanile, l’immigrazione: questi erano i problemi che la scrittrice sudafricana, vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 1992 e del Booker Prize nel 1974 (con Il conservatore, storia di un uomo d’affari bianco che continua a vivere nella sua villa di Johannesburg incurante di violenze, omicidi, miseria ), continuava a denunciare nelle sue dichiarazioni pubbliche. 

Per lei, che per gran parte della sua vita aveva lottato contro la segregazione dei neri e l’odio razziale, iscrivendosi all’African National Congress quando il partito ancora era fuori legge, l’urgenza di questi ultimi anni era soprattutto la giustizia sociale. Tanto che persino l’aggressione che subì a casa sua, nel 2006, fu un’occasione per ribadire che la violenza si risolve solo creando lavoro, non costruendo prigioni: “L’apartheid non esiste più– aveva detto nel dicembre scorso a La Stampa – ma abbiamo fallito nell’obiettivo di garantire a tutti la possibilità di una vita decente”.

Il primo romanzo, I giorni della menzogna, uscito nel 1953, racconta la storia di una giovane donna bianca nel paese segnato dai conflitti razziali. L’ultimo, Ora o mai più (pubblicato in Italia, come tutti gli altri, da Feltrinelli), è invece la storia di una coppia, “lei nera, lui bianco”, che dopo la liberazione va a vivere in un quartiere residenziale, dove è costretta però a confrontarsi con la nuova emigrazione, la violenza diffusa, gli scandali del potere. Quelli, in particolare, del nuovo presidente Jacob Zuma, più volte aspramente criticato dalla stessa Gordimer, che ne misurava tutta la distanza con il suo riferimento umano e ideale, Nelson Mandela.

Aveva conosciuto Madiba nel 1964 durante il suo processo, era stata parte della delegazione che lo aveva accompagnato a ritirare il premio Nobel per la pace, lo considerava “insieme a Gandhi, la figura più importante del ventesimo secolo”. Atea forse proprio per passione di giustizia –“ come posso credere in un Dio che sceglie me ma ne fa morire un altro?” – curiosa dell’Italia, dove vive sua figlia (“È strano che un presidente del Consiglio possieda giornali e tv”, diceva di Berlusconi), Gordimer ha sempre difeso l’idea della letteratura non come proiezione di sé, semplice autobiografia – “Non è di me che scrivo”  – ma come la possibilità di “raggiungere universi che stanno oltre il mondo di cui disponiamo” (la sua avversione per i ghetti era così forte da convincerla a rifiutare un premio letterario riservato alle donne, perché “non esiste un premio per soli scrittori uomini”). Lo stesso compito, demolire distanze, rendere uguali, lo aveva ai suoi occhi l’istruzione, l’altro grande fronte sul quale Gordimer è stata sempre impegnata: “È il semi-analfabetismo il pericolo di oggi”, aveva detto a un’intervista al Fatto del 2010.

È morta in Sudafrica perché, diceva, “considererei un tradimento andarmene”. E perché aveva ancora molte speranze per il suo Paese, libero da neanche vent’anni. “Ho resistito alle difficoltà dell’apartheid, resisterò alla disillusione di oggi”.

Il Fatto Quotidiano, 15 Luglio 2014

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