Piccoli corpi martoriati da una brutalità troppo più grande di loro. Sono le tante, troppe, vittime del conflitto israelo-palestinese. Ecco, un articolo (o post che sia) non dovrebbe mai iniziare con un contenuto simile. E mi scuso per il tipo di foto, alla cui violenza visiva ho cercato di sopperire sfocando a dovere l’immagine. Ma era necessario far capire da subito di che tipo di contenuto si stesse parlando, per creare nel lettore familiarità con quanto esperito quotidianamente su Facebook, Twitter e su tutti gli altri aggregatori sociali di violenza indiscriminata.

Quella che si vuole denunciare è una dinamica di Rete a cui tutti, volenti o nolenti, stiamo assistendo in questi giorni. Proprio in virtù della capillarità con cui questi contenuti altamente sensibili si insinuano nelle homepage e nelle timeline degli utenti, appare pressoché impossibile sottrarsene. Ed è giusto rifletterne assieme.

Nonostante Facebook (in particolare) propagandi delle rigide policy in materia di contenuti più o meno censurabili, lo strazio visivo a cui sono sottoposti quotidianamente gli internauti getta un campanello d’allarme in casa Zuckerberg: Facebook ha perso il controllo dei post e non riesce – o non vuole – bannare contenuti che non hanno ragione di esistere. Sì alla censura di una mamma col seno scoperto che allatta amorevolmente il figlio e no alla censura di un minorenne dilaniato dalla bomba di turno? Criteri quantomeno curiosi.

Non si tratta di essere a favore di Israele o della Palestina, di parteggiare davvero una causa o l’altra. Si tratta di ammettere un limite tecnico delle piattaforme di social networking più diffuse al mondo, che in alcun modo stanno tutelando la sensibilità degli utenti. Facebook in testa.

I più faziosi potrebbero sostenere che, senza Facebook e colleghi, allo stato attuale, l’utenza mondiale sarebbe digiuna di informazioni una volta irraggiungibili. Sia per quantità che per qualità. Giusto. Ma la questione è che l’immagine straziante di turno – con l’uomo decapitato, la donna fucilata, il bimbo squartato, o tutte queste brutalità insieme – non aggiunge niente alla questione israelo-palestinese, perché non fornisce un’informazione e non si rivolge alla razionalità delle persone. Non documenta, sconvolge. Si rivolge al loro cuore, al loro disagio, al loro disgusto. E un utente solleticato sull’emotività non è un utente migliore, né un cittadino più documentato sulla vicenda. È solo una persona che viene scossa e spinta a schierarsi, acriticamente.

Un test cui tutti i lettori potranno sottoporsi? Contare il numero di “amici” e “followers” che si sono apertamente schierati sulla questione negli ultimi giorni, e che fino a poche settimane fa non sapevano neanche lontanamente individuare la striscia di Gaza sulla cartina geografica. Il perché di questo dirottamento dell’attenzione è presto detto: i social network. L’informazione tradizionale ha, come sempre, relegato la questione israelo-palestinese ad un servizio lampo del Tg o a qualche riflessione trascendentale a metà giornale. Perché tanto i giornalisti quanto i lettori hanno mediamente, in Italia, uno scarso interesse a volgere lo sguardo oltre i confini nazionali. Ma questo lo sappiamo. La vera scossa informativa ha avuto come epicentro homepage e diari, timeline e deck. E di informativo ha avuto poco e niente, mentre a scuotere ha scosso eccome. L’agenda di Facebook si è imposta su quella ufficiale, e in parte possiamo esserne lieti. Il punto è chiedersi quanto la deregolamentazione totale dei social network costituisca davvero un valore aggiunto allo sviluppo democratico della coscienza dei cittadini.

Una sorta di rivisitazione 2.0 della vecchia – e apocalittica – teoria dell’ago ipodermico: a un dato input dei media corrisponde un output dei fruitori mediali. L’input è costituito dalla sovracopertura fotografica delle violenze perpetuate in quelle terre lontane. L’output, ad altissimo tasso di emotività, è rappresentato dai tweet furiosi e dagli aggiornamenti di stato al veleno pubblicati a furor di popolo (del web) da quel segmento di utenza più suscettibile a questo tipo di contenuti. Della cui veridicità, tra parentesi, si può spesso sospettare, non essendo quasi mai indicata la fonte.

Se l’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti ci ha insegnato qualcosa è che non esiste solo il diritto del cittadino ad essere informato. A monte, esiste il diritto del cittadino ad essere tutelato da pubblicazioni impressionanti e raccapriccianti – come per l’appunto foto e video di estrema violenza – e il diritto del soggetto rappresentato a veder tutelata la propria dignità. Pubblicare la foto di un neonato deturpato non rispetta né la sensibilità dell’utente che dovrà fruirne inconsapevolmente – reo, magari, di aver messo mesi addietro un semplice like a una pagina Facebook che aspira alla chimera di fare contro informazione – né la dignità umana del neonato stesso, il quale nonostante sia deceduto merita comunque il rispetto della dignità della memoria.

La contro-argomentazione potrebbe essere semplice: Facebook non è Reuters o Al-Jazeera e le pagine Facebook non sono amministrate da giornalisti. Ma di questa brutalità fotografica qualcuno deve rispondere. E quel qualcuno non può che essere il proprietario di casa, che come in ogni dimora ha il diritto e il dovere di far rispettate alcune regole di fondo, per la civile convivenza di tutti gli ospiti.

Proprio in questi giorni Facebook ha difeso il suo esperimento sociale del gennaio 2012, in cui ha testato su 700mila ignari utenti l’influenza dei singoli contenuti sul loro stato d’animo. Ebbene, se è vero che a un sentimento negativo dei post proposti in homepage corrisponde un significativo crollo di positività del loro umore, a rigor di logica è nell’interesse dello stesso Facebook che questo tipo di contenuti vengano censurati. Ne va del clima della sua stessa piattaforma, perché un utente insoddisfatto è un utente che rende di meno. Non lo vuole fare per questioni morali? Lo faccia allora per ragioni economiche, che evidentemente gli sono più congeniali.

La strumentalizzazione politica di quei corpi irriconoscibili non rende un servizio alla comunità. Dunque, si ponga un freno a questa pornografia social-e della violenza. Tra la sana informazione e il becero voyeurismo c’è di mezzo il rispetto di chi, questo conflitto, lo sta vivendo davvero sulla sua pelle. Facebook lo faccia per i suoi ospiti, gli ospiti lo facciano per se stessi. Perché prendere atto di una guerra non significa denudarla e metterla in vetrina

 

Aggiornamento del 16 luglio 2014, ore 12.00

A seguito di alcune criticità rilevate nei commenti dei lettori, ci tengo a specificare che la foto è stata volutamente estrapolata da un contesto extrapalestinese per sottolineare la duplice pericolosità di questo tipo di materiale fotografico: oltre a riprodurre contenuti altamente sensibili, le immagini sono false oppure alterate con software di fotoritocco o, ancora, prese da contesti bellici passati (Siria, Libano etc.). In questi giorni numerose pagine Facebook di controinformazione le stanno diffondendo come immagini attuali, provenienti dalla striscia di Gaza. Non solo questi materiali non dovrebbero esistere, in quanto raccapriccianti, ma non possiedono alcun valore informativo – in quanto falsi o appartenenti ad altri scenari di guerra.

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