Il 10 luglio l’Istat ha pubblicato un’indagine su: “Tutela della salute e accesso alle cure”, in cui riporta che la salute mentale in Italia è peggiorata rispetto al 2005: “La depressione è il problema di salute mentale più diffuso e il più sensibile all’impatto della crisi, riguarda circa 2,6 milioni di individui (4,3 per cento),  con prevalenza doppia delle donne rispetto agli uomini”. Ho cercato di capire, fra i criteri di ricerca pubblicati, come si sia arrivati a queste conclusioni, ma non essendo un epidemiologo non sono in grado di fare una valutazione tecnica, mi limiterò pertanto a pochi commenti non molto lontani da quelli che potrebbe fare qualsiasi cittadino.

Il primo è quasi ovvio: “Ma perché non dovrebbe essere così?”. Da che mondo e mondo la depressione è associata a quello che non va nella vita, ai lutti, alle perdite, ai tracolli amorosi e finanziari, ai licenziamenti e ad altre possibilità simili. Avrebbe fatto più scalpore ritrovare all’interno di un periodo di recessione che ha “fregato” una intera generazione di giovani che vanno ormai per i trenta / quaranta anni, destinati ad una vita precaria e ad un futuro incerto, dei dati che avessero associato tutto questo ad una maggiore felicità. Ci sono stati tempi in cui si immaginava che nei periodi duri diminuissero le malattie mentali, perché essendo queste ultime considerate una sorta di “invenzione personale”, i tempi bui avrebbero obbligato le persone a rimboccarsi le maniche e a non pensare a tante “sciocchezze”.

Nella stessa indagine Istat viene riportato che i tumori maligni sono accresciuti del 60 per cento e che gli oncologi considerano questo un dato positivo perché vuol dire che si vive più a lungo, quindi l’aumento della depressione, a vedere il bicchiere mezzo pieno, potrebbe voler dire, che la gente si vergogna meno a mostrare i propri stati d’animo e questo spiegherebbe la prevalenza della depressione nelle donne, a sostegno di una cultura anti “macista” secondo cui mostrare la sofferenza è un segno di forza e non di debolezza. Ma su un altro punto potrebbe scricchiolare un’indagine del genere, proprio nel significato della parola “depressione” che ha infinite sfaccettature e che deve essere distinta dal termine “tristezza”.

Ad un’osservazione esterna una persona depressa ed una persona triste possono apparire molto simili se non identiche, ma la tristezza è uno stato d’animo legato alle naturali vicende della vita e la capacità di farci fronte può comportare alla lunga dei vantaggi nella dinamica complessiva della propria personalità, mentre con la depressione si entra nel campo psicopatologico, del disturbo o della malattia. E’ importante quindi distinguere fra due cose apparentemente simili, una fisiologica e l’altra patologica, e  avere la capacità di dare il nome giusto ad ognuna delle due, perché il trattamento è molto diverso. Si rischia in molti casi di trasformare la persona triste, che deve essere sostenuta con interventi sociali e personali, in una diagnosi clinica, la depressione, e trattarla in termini esclusivamente medici. Speriamo dunque che a una crisi già di per sé tanto perniciosa non si aggiunga la confusione fra tristezza e depressione, con una errata medicalizzazione, che sarebbe ulteriormente esiziale. 

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