In testa al corteo c’è un trampoliere travestito da “Signora della morte” con in mano una falce e al collo un cartello: “L’amianto è mio marito“. Sono scesi in un centinaio in piazza i lavoratori dell’Ogr, le Officine grandi riparazioni delle Ferrovie dello stato di Bologna: una delle “capitali” dei decessi per la fibra killer. Da quando si conosce il problema, i lavoratori e pensionati dello stabilimento di via Casarini hanno contato almeno 200 morti, solo considerando i decessi in provincia.

Durante la manifestazione promossa dalle segreterie regionali di Cgil, Cisl e Uil, i lavoratori hanno percorso via Casarini, via Don Minzoni e via Amendola fino alla sede cittadina dell’Inail per chiedere più tutele. “Siamo arrivati a lavorare in 1.200 in quella fabbrica e l’80% erano operai che venivano da altre regioni e lì sono tornati. Di loro non abbiamo saputo niente: sono vivi? Sono morti? si sono ammalati di mesotelioma?”, dice a ilfattoquotidiano.it Salvatore Fais, operaio in Ogr da più di 30 anni e delegato Cgil. “Siamo qui per chiedere all’Inail uno sportello unico che accolga i colleghi che presentano dei sintomi dubbi, e che li accompagni tutto il loro percorso. Chiediamo all’Inail, per ciò che riguarda i lavoratori che tuttora sono in servizio dentro le Ogr, che vengano riconosciuti anche a loro i benefici come a tutti coloro che hanno lavorato l’amianto. La nostra aspettativa di vita è inferiore, questo è certificato”.

Arrivati sotto la sede dell’Inail, i lavoratori hanno osservato un minuto di silenzio e steso a terra tre lunghe file di lapidi in cartone, con i nomi dei tanti colleghi morti in questi anni. Dopo quasi un’ora di presidio davanti all’ingresso dell’istituto, una delegazione è stata ricevuta negli uffici. Fuori, tra i manifestanti, non ce n’è uno che non abbia pianto un amico, un collega: “Ti parlo di un amico fraterno che è morto nel 1984”, spiega Antonio Matteo, in pensione da 12 anni, tra i primi ad avere sollevato il problema in azienda già negli anni ottanta. “Eravamo in collegio insieme, abitavamo nella stessa strada. Lui aveva un figlio di due anni, l’ultima volta che l’ho visto, nel luglio 1984, mi disse che non riusciva neanche a sopportare il pianto del suo bimbo di due anni tanto stava male”.

Rossano Franchin, veneto, da dicembre 2013 è in pensione. Ha fatto 100 giorni a stretto contatto con le fibre assassine, ma per questo non ha ricevuto mai alcun risarcimento: “Erano le cosiddette celle di ‘scoibentazione’. Inoltre ho lavorato anche in un reparto nel quale smontavamo componenti contaminate. Inizialmente – spiega Franchin – si lavorava con degli utensili pneumatici e così, con l’amianto che è secco, tutto volava per aria. Era una roba allucinante, ma nessuno allora sapeva, perché se si fosse saputo, allora in quelle celle non sarebbe entrato nessuno”. Salvatore Fais racconta il dramma di chi ha paura, e con il passare degli anni (si dice che il picco delle morti arriverà intorno al 2020-2025) teme per la propria salute: “Viviamo in un’ansia continua: un piccolo colpo di tosse, un dolore alla spalla”.

Intanto prosegue anche la vicenda giudiziaria. A ottobre prossimo si terrà la nuova udienza preliminare per il processo che vede imputati cinque ex dirigenti delle Officine per la morte di alcuni operai nel 2009. A loro viene contestato a vario titolo, tra l’altro, di non aver adottato le misure tecniche, organizzative, procedurali e igieniche per contenere l’esposizione all’amianto e di non aver sottoposto i lavoratori ad adeguato controllo sanitario mirato sul rischio specifico. E il Gup Maurizio Millo nelle scorse settimane ha dato il benestare alla costituzione parte civile della Filt Cgil.

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