Il silenzio, ci aveva anestetizzati. E noi, in fondo, non desideravamo altro: non sentire, non vedere, non sapere, potere credere che –magari- le cose stessero andando meglio. Era tempo che, dal Medio Oriente, non venivano più rumori di guerra forti. Per essere sinceri, non venivano neppure più parole di pace, né bisbigli di pace.

Al massimo, preghiere, come quella che l’8 giugno, papa Francesco aveva chiamato a fare, insieme, nei giardini del Vaticano, il presidente uscente d’Israele Shimon Peres, un Nobel per la Pace, e il presidente palestinese Abu Mazen, con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo. Ciascuno lì a pregare il suo dio, che essendo per tutti uno, è poi verosimilmente lo stesso.

Dimenticarsi del conflitto tra israeliani e palestinesi, potersene dimenticare è una sorta di ‘nirvana della diplomazia’, visto che, più o meno da vent’anni in qua, occuparsene vuol dire fallire. Quali che siano i protagonisti e l’approccio. Da parte americana, ci hanno provato il negoziante Clinton, Bush ‘pugno sul tavolo’, il dialogante Obama; da parte europea, ci hanno provato tutti per conto loro e, quindi, nessuno.

E non ho certo la pretesa che bastino un post e 3000 battute a descrivere la complessità della situazione e ad individuare vie d’uscita. Le Primavere arabe e i loro colpi di coda hanno dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, difficoltà e ritardi dell’intelligence e dell’Occidente a capire il Medio Oriente.

Dove, a spezzare l’apparenza d’equilibrio, basta un atto d’odio, brutale, criminale, ingiustificabile, che innesca una spirale poi apparentemente impossibile da fermare. Il rapimento e l’uccisione di tre adolescenti israeliani, studenti rabbinici che facevano – ingenuamente?, spavaldamente?, a 16 anni ci sta e, comunque, non è una colpa – l’autostop nei Territori (spariscono il 12 giugno, sono ritrovati cadaveri il 30) fa scattare la legge del taglione per chi, nel leggere le Sacre Scritture, s’è fermato a quella pagina e non è arrivato all’ ‘ama il prossimo tuo come te stesso’.

A Gerusalemme Est, il 2 luglio un adolescente palestinese che andava in moschea alla preghiera del mattino viene caricato a forza su un’auto e bruciato vivo. Le autorità individuano i responsabili dei crimini successivi, ma non basta.

La spirale della violenza, della vendetta che chiama vendetta – anche qui, la pagina del perdono viene dopo – è partita: incursioni dell’esercito nei Territori, case rase al suolo –per la prima volta da 7 anni-, raid aerei sulla Striscia di Gaza; tiri di razzi a grappolo sul Sud di Israele e fin su Tel Aviv; morti, feriti, distruzioni, orrori.

C’è il consueto squilibrio di vittime fatte, forza sciorinata, danni causati, in un intreccio di sentimenti spesso contraddittori. E le diplomazie non fanno meglio che riproporre le solite litanie: riconoscimento del diritto d’Israele all’autodifesa, ma invito alla moderazione; richiesta di riunioni d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; appelli alla pace; richieste d’intervento internazionale.

Israele utilizza la retorica biblica, “schiacciare la testa del serpente”, mentre uccide anche donne a bambini. La Palestina cerca una tregua, ma promette “l’inferno”; e deve prima comporre i contrasti che riaffiorano tra Fatah e Hamas. Che fare? Pregare che l’accesso di furia passi e che si torni al silenzio degli ultimi mesi, anni…? Odiatevi, ma che noi non lo sentiamo?

Ma, questa volta, può essere diverso: dalla Mesopotamia, soffia sull’Islam il vento di un nuovo Califfato, arriva il messaggio jihadista. Il rischio è che la fiammata diventi rogo. Sfuggendo al controllo di chi magari crede di potere modulare, e manipolare, l’uso della forza.

 

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