Sebbene il padre del ragazzino rapito e bruciato vivo il 2 giugno scorso per rappresaglia alla morte dei tre seminaristi ebrei abbia negato di aver chiesto che i funerali del figlio partissero dalla Spianata delle Moschee, il governo israeliano, non appena diffusa la notizia – peraltro falsa – si è affrettato ad esprimere il suo fermo rifiuto.

La Spianata è un sito religioso nel centro di Gerusalemme, uno dei luoghi di culto più contesi al mondo, e le esequie di Mohammed Abu Khdeir non lo meritano perché Mohammed è palestinese. Non lo avrebbero meritato nemmeno se Eyal, Gilad e Naftali oggi fossero ancora vivi.

Questo è il senso del rifiuto espresso dalla polizia di Gerusalemme e questo è il primo dato da considerare se si vuole tracciare un disegno più chiaro dei diciotto giorni di sequestro in cui quasi tutti i genitori israeliani si sono calati nei panni di quelle tre madri e di quei tre padri che hanno perso brutalmente i propri figli. 

In effetti, agli occhi del popolo ebraico la morte dei tre giovani seminaristi non costituisce un nuovo episodio in un ciclo infinito di violenze, ma una tragedia nazionale e la sintesi di una lotta senza tempo. D’altro canto non è però possibile ignorare che i tre studiassero in un insediamento illegale costruito sui terreni rubati proprio ai palestinesi del villaggio di Al Khader e che buona parte dei coloni che vivono in quell’insediamento è composta da statunitensi provenienti da New York, come una delle vittime. Si tratta di persone che spesso mantengono una doppia cittadinanza ed hanno il privilegio di avere persino due abitazioni, una nel loro Paese e un’altra in Palestina, mentre gli arabi continuano a vivere nei ghetti o nelle città occupate in esilio.

Il ritrovamento dei cadaveri di Eyal, Gilad e Naftali ha suscitato un’ondata di proteste e condoglianze provenienti da tutto il mondo, ma raramente la comunità internazionale reagisce in questo modo quando muoiono dei palestinesi. Anzi, in molti casi le loro mamme sono state accusate di non saper badare ai propri figli, o di mandarli a morire sotto la bandiera del terrorismo di Hamas. Fa bene quindi la scrittrice Susan Abulhawa a domandarsi il perché nessun giornalista, allora, abbia pensato questa volta di chiedere ad uno dei genitori dei tre seminaristi il motivo per cui hanno deciso di trasferirsi in Cisgiordania dagli Stati Uniti per vivere in una colonia isolata costruita su un terreno confiscato.

Sia chiaro, la morte di Eyal, Gilad e Naftali ha sconvolto anche me, ma solo fino a quando Israele non ha iniziato a mettere sotto assedio quattro milioni di arabi facendo irruzione nei villaggi e lanciando raid notturni, ferendo ed arrestando indiscriminatamente oltre 400 persone. Peraltro, c’è più di un punto interrogativo che aleggia intorno alla dinamica del rapimento dei tre israeliani. Ad esempio sorge il dubbio su come abbiano fatto dei comuni terroristi a mettere a segno una tale operazione in una delle aree della Cisgiordania maggiormente sorvegliata dall’esercito ebraico. E’ evidente che il solo ad aver tratto beneficio dal deplorevole episodio è Benjamin Netanyahu, dipinto in un angolo del processo di pace ormai da diversi mesi e il cui primo obiettivo, oggi, è far saltare l’accordo di unità nazionale tra Hamas e Al Fatah.

Personalmente non voglio smentire l’autenticità del lutto per la barbara uccisione dei tre ragazzi, quanto focalizzarmi su due aspetti. Il primo è che in Medio Oriente c’è una terribile disparità tra il valore che viene attribuito alle vite dei figli israeliani e a quelle dei figli palestinesi, come Mohammed. Il secondo è la progressiva impopolarità che sta maturando Netanyahu, perché prima o poi mi auguro che anche gli israeliani la smetteranno di dare la colpa solo ai palestinesi ed inizieranno a comprendere che la lotta al terrorismo è uno dei mezzi per giungere alla pace nella regione, non lo strumento per avallare la sottomissione di un altro popolo, autonomo e indipendente, così com’è riconosciuto dalle Nazioni Unite.

 

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