Nel padiglione Italia si entra dal grande portale arcuato Archimbuto e si esce seguendo la stringa della lunga panca denominata Il nastro delle Vergini. Entrambi gli “innesti” sono firmati dal curatore del padiglione, l’architetto milanese Cino Zucchi, nel mezzo, il ventre italiano della “modernità anomala”. Innesti / Grafting ( la traduzione inglese è grafts, ma in gergo anglosassone può essere sinonimo di tangenti e quindi liberamente declinata in grafting ) è la risposta interpretativa di Cino Zucchi alla proposta del curatore generale Rem Koolhaas che per questa 14a Biennale di Architettura ha dato un tema per il contributo ai padiglioni nazionali, Absorbing Modernity 1914/2014: un invito ad approfondire la validità dell’esperienza moderna nel contesto contemporaneo.

Un titolo di indubbio interesse, che il curatore del padiglione Italia ha interpretato partendo dalla premessa che l’architettura italiana dalla Prima Guerra Mondiale a oggi evidenzia una “modernità anomala”, marcata dalla capacità di innovare e di interpretare gli stati precedenti attraverso metamorfosi continue. La progressione e i cambiamenti sono presentati nelle diverse sezioni. Tale modernità che in realtà interessa tutta l’Italia, è circoscritta nell’ambito dell’esposizione alla sola città di Milano, “Laboratorio del moderno”, una selezione critica dei progetti realizzati negli ultimi cento anni, che – secondo il curatore – si confrontano con la struttura urbana preesistente con una grande carica trasformativa, perché Milano è un esemplare “laboratorio del moderno” e anche il luogo che ospita Expo 2015, un esempio di grande trasformazione territoriale.

Se la lettura critica degli “innesti” intesa come architettura capace di trasfigurare le condizioni del contesto in una nuova configurazione è sviluppata in modo chiaro e coerente attraverso gli esempi storici milanesi, tale tesi perde di forza e consistenza quando viene sagomata ad uso delle altre tre sezioni del padiglione: “ambienti taglia e incolla”, le proposte progettuali utopiche di cinque autori rappresentate con la tecnica del collage; “Paesaggi abitati”, serie di video del territorio italiano visto alternativamente come “museo a cielo aperto” e luoghi di degrado ambientale realizzati da diversi autori; e infine, la sezione “Un Paesaggio contemporaneo”, sempre con riferimento al territorio italiano e ai diversi contesti economici e sociali, nella quale si mostrano ben 85 progetti di altrettanti autori, (si direbbe che la scuola e l’architettura italiana godano di ottima salute) – dei quali una dozzina non realizzati in Italia – e rappresentati da una sola foto del solo esterno, di ogni edificio.

Tale generosa selezione viene presentata come la migliore cultura progettuale di questi anni, animata da molti elementi: dall’attitudine all’osservazione attenta del sito, dei suoi vincoli, delle sue risorse e dalla capacità di intervenire in esso con un atto di assimilazione e trasformazione, che lo trasfiguri in un nuovo paesaggio abitato. Se e in quale modo questi 85 edifici abbiano effettivamente risposto con l’architettura a queste questioni (ipotesi che sarebbe stato interessante approfondire e soprattutto mostrare) non è dato vedere; il visitatore è chiamato ad un atto di fede perché questa sorta di mappatura, di prestigiosa vetrina, di fugace passerella fotografica, altro non mostra. E forse in una Biennale, luogo privilegiato di contenuti e approfondimenti, l’architettura dovrebbe spiegarsi da sola, senza salti immaginativi e indispensabili note testuali.

Ma a ben guardare, il padiglione Italia della 14a Biennale di Architettura è la rappresentazione plastica dell’Italia del momento: quella più superficiale degli slogan ottimisti e auto-celebrativi ma profondamente segnata dall’assenza di senso del futuro, delle alleanze di legislatura, l’Italia che “cambia verso”. Per andare dove, non importa.

 

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