Venti giorni di galera. In isolamento. Senza vedere i figli. Una volta sola la moglie Marita, durante un blindatissimo colloquio. E quelle voci che dalle altre celle gli martellano la testa: assassino, la pagherai. Perché ammazzare una bambina di 13 anni così come è stata uccisa Yara Gambirasio, resta un marchio indelebile. La peggiore infamia. Massimo Giuseppe Bossetti, il 44enne muratore di Mapello innamorato dei suoi animali e della sua famiglia, lo ha capito. Sa che su di lui pesa come un macigno la prova del Dna. Sul corpo della giovane ginnasta di Brembate c’è la sua impronta genetica. Una macchia di sangue all’interno degli slip proprio nel punto dove risultano tagliati. Non un indizio, ma una prova, stando al ragionamento della Cassazione. E dunque? Logica vorrebbe che dopo quasi un mese di carcere uno come lui, incensurato e senza il minimo precedente di polizia, debba crollare rendendo confessione piena. E invece no. Bossetti resiste. Fa di più. Urla che con quell’omicidio brutale lui non c’entra. “Sono innocente – dice – e per dimostrarlo sono disposto a morire in carcere, gli inquirenti facciano pure: vogliono guardare i miei computer e le mie auto, si accomodino, io non ho nulla da nascondere, non ho mai conosciuto Yara”.

Eccola la versione di Bossetti, inedita e clamorosa. Il presunto killer, capace di uccidere “con sevizie e crudeltà” “efferata violenza” e “senza freni inibitori”, consegna ai suoi legali una confidenza sconvolgente che una volta di più rimescola le carte di questo complesso caso di cronaca nera. Isolato in cella, mentre fuori il circo mediatico lo inchioda ogni giorno. Prima le celle telefoniche, poi il furgone Iveco Daily filmato in via Rampinelli dove abita la famiglia Gambirasio. E ancora quelle abitudini tanto normali da apparire sospette: le lampade abbronzanti e qualche salto in discoteca. Vale tutto. Ogni domanda serve a circoscrivere il mostro. Anche quei dieci euro fatti al benzinaio di Brembate. Dieci non di più. Perché ci si è chiesti? Per tornare a Brembate più volte è stata la risposta. Manco dire che a Brembate vive il fratello di Bossetti e qui c’è il suo commercialista e da qui passava per tornare a casa dal cantiere di Palazzago. Tutto vale. Tanto, in fondo, è solo contorno.

Il Dna inchioda. Il Dna condanna. Bossetti lo sa, gli è stato detto durante gli incontri con i suoi avvocati. L’avvocato Claudio Salvagni, che ha affiancato il primo legale d’ufficio Silvia Gazzetti, lo ha ripetuto come un mantra a ogni incontro. Salvagni non è certo un avvocato di primo pelo. Conosce il codice e sa come funziona la giustizia. E dietro agli occhiali alla moda, cela uno spirito caparbio. Salvagni sa, ad esempio, che in primo grado al tribunale di Bergamo davanti a una corte d’Assise composta da giudici popolari che in queste settimane hanno letto i giornali e visto le televisioni, una condanna è matematica. E sa che una condanna in un processo ordinario corre dritta dritta verso “il fine pena mai”. E meno male che non siamo negli Stati Uniti perché con questo quadro probatorio per il figlio naturale di Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno morto nel 1999, ci sarebbe solo la pena di morte.

Bossetti ha ascoltato. Ha tremato, forse. “Avvocato vada avanti, io sono innocente”. Non si smuove il muratore arrestato il 16 giugno 2014 dal Ros in un cantiere di Seriate. Non cede davanti al calcolo implacabile delle probabilità che lo danno colpevole. Il racconto dei legali sconvolge per la sua chiarezza, rimandando l’immagine di un uomo consapevole. Per lui, in questo momento, non contano le scappatoie né i calcoli algebrici di una rito abbreviato che in dodici anni gli potrebbe restituire la libertà. No, lui, dice, vuole giustizia a tutti i costi. E per questa è disposto a morire. Sa, ad esempio, che rinunciare al tribunale del Riesame significa restare in carcere ancora un anno, perché è questo il tempo massimo nel quale la procura di Bergamo dovrà chiudere l’inchiesta. E poi c’è il primo grado a Bergamo, l’Appello a Brescia. Sentenze scontate, probabilmente. Salvagni punta molto sulla Cassazione. Anche se l’interrogatorio di martedì prossimo davanti al pm Letizia Ruggeri, chiesto da Bossetti, potrebbe cambiare di nuovo le carte in tavola. 

Si vedrà. Nel frattempo, la difesa prepara la svolta annunciata in queste settimane, ma ancora ben custodita. Molto c’è nel verbale che Bossetti ha firmato davanti al giudice Ezia Maccora durante l’interrogatorio di garanzia del 19 giugno 2014. Una versione, s’intuisce, sulla quale la difesa punta molto. C’è da crederci visto che l’interrogatorio del muratore di Mapello, fatti salvi alcuni brevi passaggi riportati nell’ordinanza d’arresto, resta ad oggi top secret. E’ ritenuto decisivo e non solo dalla difesa, ma anche dagli investigatori del Ros che in base alle dichiarazioni dell’indagato cercano riscontri decisivi.

Il resto sta in un’inchiesta azzoppata ai nastri di partenza dall’annuncio via twitter del ministro dell’Interno. La Procura avrebbe voluto tutelare la discovery, avrebbe voluto intercettare Bossetti così come fatto, e per un giorno solo, con la madre Ester Arzuffi, avrebbe voluto seguire il muratore che in quasi quattro anni dal delitto (Yara scomparve e morì il 26 novembre 2010) non è mai scappato. La storia è andata diversamente e tutto oggi si fa sotto i riflettori della stampa. Le analisi dei Ris sul furgone di Bossetti, la relazione dell’Università di Pavia sui “reperti piliferi” che non sembrano coincidere con il Dna del muratore. E poi ancora le celle, i coni, le testimonianze, le polveri, i cantieri, i silenzi di queste terre, la loro riservatezza violata. Ma tutto vale davanti al corpo martoriato di Yara trovato tre mesi dopo in quel campo di Chignolo d’Isola, lembo di terra, quello in fondo a via Bedeschi, frequentato da puttane e clienti.

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