Matteo Renzi, descrivendo gli ultimi venti anni della nostra vicenda politica come “un derby ideologico”, rinverdisce- con rude tempra di chierichetto – l’ancestrale arte del falso storico; che gli ambienti ecclesiastici, dove è stato amorevolmente tenuto a balia, praticano da quasi due millenni.

A prescindere dalle narrazioni edulcorate sulla dogmatizzazione teologica del Cristianesimo tra i concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), incubatrici dell’accordo di potere tra Chiesa e Impero romano, il classico esempio è la cosiddetta “Falsa donazione di Costantino a papa Silvestro I”, con cui per secoli venne legittimato, in punta di presunto diritto, il potere temporale vaticano. Un documento che reca la data fasulla del 30 marzo 315, mentre il suo latino barbarico lo postdata grossomodo al IX secolo (quando comparve per la prima volta nei Decretali dello Pseudo-Isidoro), poi fatto a pezzi in quanto ad attendibilità dall’umanista Lorenzo Valla nell’anno 1440 (anche se l’ostilità delle gerarchie papiste impose la pubblicazione del testo filologico solo nel 1517 e in terra protestante).

La regola costante in queste operazioni di falsificazione della realtà è tratteggiare una situazione spudoratamente favorevole agli interessi del committente. Lo era per la Chiesa medievale (come lo sarà ancor ai nostri giorni; ad esempio prospettando un uso generosamente caritatevole e non avidamente accumulativo di quell’8 per mille a cui il buon papa Bergoglio si guarda bene dal rinunciare), lo è per il neodemocristiano Renzi; che aggiunge alla naturale predisposizione verso le tecnologie del potere propria della sua scuola, la beata/ostentata ignoranza delle faccende su cui pontifica. Che fa tanto generazione 2.0.

Non trascurabile terreno per le falsificazioni a scopo di potere è la descrizione della Seconda Repubblica come una testarda contrapposizione di principi non mediabili (il cosiddetto “derby ideologico”) tra due schieramenti “l’un contro l’altro armati”: il liberismo individualismo della destra e lo statalismo burocratico della sinistra.

Un bel quadretto, che prefigura l’arrivo del Salvatore, nunzio della Buona Novella che metterà d’accordo tutti: una sorta di tardivo blairismo da Terza Via, sciacquato nell’Arno dalle sponde di Rignano.

L’epifania renziana come puro (e sfacciato) falso storico, in quanto niente di questa narrazione corrisponde al vero: dopo la catastrofe della Prima Repubblica Silvio Berlusconi, ormai privo di protettori per i propri affari sempre “border line”, non trova niente di meglio che entrare in politica, forte di relazioni collusive e dossier che rendono la controparte particolarmente malleabile. Spesso collusa.

Si scatena – semmai – una lunga guerra guerreggiata tra il cacicco riciclato, che ormai controlla tanto l’Esecutivo come il Legislativo, contro il potere giudiziario. E non per astratti principi giuridici quanto sulla titolarità o meno del diritto da parte dei magistrati di investigare attorno alle – diciamo così – “spregiudicatezze” del personaggio. Abile nell’intercettare e sovrapporre alle sue vicende personali il pervicace bisogno di impunità di un’intera e indifferenziata classe politica. che pretende insindacabilità e imperscrutabilità.

Detto così il presunto derby diventa pura lotta per bande. Ma Renzi deve impedire che tale ricostruzione, ben più attinente alla realtà dei fatti, prenda campo per almeno due ragioni:

  1. Come tutti i suoi predecessori alla guida del Pd (e dei precedenti cambi di pelle della compagine) ritiene Berlusconi l’interlocutore migliore in una logica di puro scambio politico-affaristico. Quindi conviene incoronarne il parrucchino con l’aureola di “Padre della Patria”;
  2. Deve presentare una serie di clamorose baggianate, a partire dalle riforme istituzionali (Senato e legge elettorale), come una stagione di fattivo pragmatismo, quando in realtà si tratta del deliberato massacro di garanzie democratiche per assicurare il totale controllo del ceto politico sulla società.

Intenti falsari propri di quella cultura clericale che domina i corpi colonizzando le menti. Secondo Michel Foucault, “il Potere nei suoi discorsi di Verità, la Verità nelle sue pratiche di Potere”.

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