“Strapago i miei operai, affinché siano in grado di acquistare le auto che producono”. Per comprendere il cuore della crisi è più che sufficiente questa celebre massima di Henry Ford. All’indomani del crollo del Muro di Berlino, avendo il capitalismo perso il suo unico (e ultimo) contrappeso ideologico nella storia, la concezione neoliberista ha potuto farsi largo sia nell’economia che nelle nostre menti: da mercantile, il capitalismo ha liberamente potuto tramutarsi in finanziario (grazie alla globalizzazione) e, adesso, relazionale (grazie alla digital-economy). Come argomentato nel mio precedente e dibattutissimo articolo, (Il problema non è la ricchezza, ma la sua distribuzione), il trionfo planetario di questa concezione della realtà ha progressivamente concentrato quote crescenti di ricchezza nelle mani di sempre meno individui, decretando quegli attuali e insopportabili disequilibri sociali che si fanno platealmente beffe delle parole di Ford. E contro cui si stanno (tardivamente) scagliando i numeri uno mondiali delle rispettive discipline: economia (Stiglitz, Krugman, Piketty), sociologia (Bauman), cristianità (Papa Francesco).

Inoltre, da quando la tecnica, nella seconda metà del secolo scorso, ha impresso alla produttività della forza lavoro una dinamica più accelerata di quella dei salari reali, l’occidente ha sperimentato – con intensità crescente – un fenomeno che non conosceva, né poteva immaginare: l’offerta di beni e servizi ha pian piano superato la capacità del mercato di assorbirla. Tasche vuote, magazzini pieni, produzione ferma. A metterci una pezza, ci ha naturalmente pensato il sistema creditizio, finanziando la possibilità di spesa delle famiglie, anche laddove non ve ne fossero i requisiti. Ed ecco la ciliegina sulla torta: scoppio del bubbone subprime e attuale paralisi sistemica. Le parole di Ford, chiariamolo, sono un’eccellente diagnosi del problema. Ma non sono assolutamente la soluzione! Le risorse a disposizione del “giochino” turboliberista, infatti, non sono infinite. Oltre che il buon senso, lo dice anche la fisica: nulla si crea e nulla si distrugge. Pertanto, ipotizzare oggi che, ricominciando ad esempio a strapagare i propri operai (leggi: attivando delle serie politiche redistributive), si attivino quelle capacità di spesa in grado di rivitalizzare l’economia, è – in termini sistemici – una pura follia.

La crescita “ad ogni costo” l’abbiamo già sperimentata. E lo stiamo vedendo: i costi, soprattutto per l’ambiente, sono insostenibili. Parlare in questo frangente di decrescita – lo capirebbe persino un bambino – è come parlare di satanismo in San Pietro. Ma ancora più stupido – e questo lo capirebbe invece un quadrupede – è illudersi che le evidenze sopra descritte siano in grado di alimentare a oltranza un meccanismo che, dietro l’ipnosi collettiva di una crescita infinita in un mondo finito, possa garantire continuità sistemica in eterno. L’attuale “multi-crisi” sta sonoramente sbattendoci in faccia che il modello di sviluppo a cui ci ha abituato qualche decennio di energia fruibile su larga scala e a basso costo, non è perpetuabile all’infinito. Nell’ultimo “Global Risks 2014”, il rapporto che il World Economic Forum redige ogni anno per valutare le principali minacce alla salute del pianeta, i cinque fattori sistemici con maggior grado di rischiosità sono risultati: disuguaglianza dei redditi, eventi meteorologici catastrofici, disoccupazione/sottoccupazione, cambiamenti climatici, approvvigionamento idrico. E ora, già lo sento: si leverà il coro dei paladini dello sviluppo “ad ogni costo”, che – senza poter opporre alcuna soluzione strutturale – urleranno allo scandalo e al catastrofismo del solito uccello del malaugurio.

Non a caso, lo scaltrissimo Renzi, per scongiurare visioni di questo tipo ormai imminenti, ha prontamente introdotto nella comunicazione politica il tema dei “gufi” (leggermente in ritardo, però, rispetto al sottoscritto): coloro cioè che – con estrema pacatezza – si limitano a dire la verità, raccontando le cose come stanno. Anche se indigeste. Crescere all’infinito in un mondo dalle risorse finite non è, come pretenderebbe qualcuno, una scommessa. E’ un’utopia. Esattamente come lo fu il comunismo, tanto per chiarire. Possiamo crederci o non crederci, la scelta è solo nostra. Ma facciamolo, almeno, armati di consapevolezza: chiarendo cioè a noi stessi quelle che sono le variabili in gioco. E su quali, tra queste, possiamo esercitare un’influenza diretta. Perché anche il neoliberismo, stiamone certi, avrà prima o poi il suo Muro di Berlino.

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