Lo scoppio della Prima guerra mondiale, che ha nel luglio 1914 i suoi giorni decisivi, rappresenta tuttora un modello di studio per la complessità dei meccanismi decisionali che si pongono dinanzi ai principali Paesi europei. Ci sono cause strutturali nei nazionalismi aggressivi (Germania, Gran Bretagna, Francia, Russia) animati dalla volontà di dominio mondiale, e nei nazionalismi oppressi (quelli slavi soprattutto) con il loro desiderio di affrancamento. C’è un fattore culturale, già vivo all’inizio del Novecento, che propugna la guerra come soluzione definitiva ai contrasti internazionali, una soluzione giudicata “giusta” perché delineerà l’ordine del più forte: le armi devono arrivare dove non giunge la potenza economica. Nel Manifesto futurista del 1909 al punto 9 si trova l’affermazione della “guerra come sola igiene del mondo”, aspetto che esprime il tratto delle correnti belliciste europee e non solo italiane.

Tutti ricordano l’attentato del 28 giugno quando il nazionalista serbo bosniaco Gavrilo Princip uccide a Sarajevo l’erede al trono d’Austria – Ungheria Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia. Sembrerebbe una crisi locale all’interno del sistema europeo, ma i vincoli diplomatici – palesi e segreti – esistenti tra gli Stati pongono le conseguenze dell’omicidio su una dimensione continentale. L’emergenza mostra l’usura delle relazioni diplomatiche dopo che le mediazioni avevano composto le crisi del 1908, del 1911 e del 1913.

Nel luglio del 1914 lo spazio per una soluzione concordata non esiste più. Le potenze principali temono di perdere un proprio alleato nello scacchiere internazionale e giudicano debole la propria posizione nelle precedenti crisi, così pensa la Germania se non aiuterà l’Austria – Ungheria e la Russia se non sosterrà la Serbia.

In questo modo non si lavora più su una composizione pacifica della crisi e l’Austria – Ungheria impone alla Serbia – ritenuta la mandante dell’azione – una serie di vincoli che ne limiterebbero notevolmente la sovranità. Da Vienna non solo si pretende un’inchiesta, ma si esige che gli austriaci affianchino i serbi nelle indagini, che la Serbia epuri gli ufficiali antiaustriaci e cessi ogni propaganda ostile nei suoi confronti. Un diktat inaccettabile, frutto di una diplomazia coercitiva.

A un mese dall’attentato, il 28 luglio 1914, l’Austria – Ungheria dichiara guerra alla Serbia. Si innesca un effetto domino e nel giro di 15 giorni tutte le principali potenze europee, ad eccezione dell’Italia, sono in guerra.

Le conseguenze che ne scaturiranno sono devastanti: 10 milioni di morti, 20 milioni di feriti e la ridefinizione dell’ordine mondiale. Il continente europeo – che era stato il cuore pulsante del mondo – realizza con la guerra la sua autodistruzione avviandosi verso una decadenza economica, politica e culturale, premessa alla successiva Seconda guerra mondiale.

Per le diplomazie europee i giorni di luglio sono il momento della valutazione di un rischio che gli attori del tempo giudicarono calcolato. Non potevano, in effetti, conoscere gli esiti. L’illusione che accompagna ogni retorica bellicista, su fronti e periodi diversi, è credere che la guerra sarà breve. La Germania, ad esempio, riteneva l’estate del ’14 un momento propizio per dichiarare la guerra, alla luce del riarmo – che giudicava incompleto – di Russia e Francia.

Apparentemente, la differenza di regimi fra l’Europa è minima alla vigilia della Grande guerra. Ad eccezione della Russia, le principali potenze sono tutte dominate da democrazie liberali mentre alla vigilia della Seconda guerra mondiale l’Europa è divisa tra democrazie e due totalitarismi contrapposti. In realtà, nel 1914, i principi della democrazia liberale sono sempre più soffocati dai nazionalismi. E’ l’ambizione imperialistica – coloniale che muove i destini, dove si agita l’inquietudine britannica di vedersi presto sopravanzata dall’emergente Germania che, a sua volta, ambisce a un Commonwealth tedesco sull’Europa dell’Est. Anche culturalmente Berlino stava sorpassando Londra e Parigi, ben tre membri del governo britannico avevano studiato nella capitale tedesca. Sono di rango inferiore, come potenza belliche ed economiche, Francia e Russia, dietro alle quali seguono l’impero austroungarico e l’Italia.

Nel trattato di pace di Versailles i vincitori sancirono per iscritto la responsabilità tedesca nello scatenamento del conflitto, aspetto storicamente falsato poiché tutti sono corresponsabili, tutti in proporzione al loro peso e alla loro potenza.

Con la guerra finisce anche l’illusione di un secolo di progresso continuo. Dice il 4 agosto 1914 Erich von Falkenhayn, futuro capo di Stato maggiore tedesco, davanti al cancelliere: “Anche se andremo a picco, sarà stato bello!”.

Accogliendo questo principio la politica abdica al tecnicismo militare, ultimo metro di valutazione delle cancellerie europee che comporterà, nel corso del conflitto, un crescente peso degli Stati maggiori a scapito dei governi civili. Un aspetto che sarà il germe di soluzioni autoritarie.

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