Il 3 luglio 1995 Alexander Langer si impiccava ad un albero di albicocco. “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”, le sue ultime parole. Una frase di auspicio, di buon augurio, che stride maledettamente con quella testa che ciondola da un cappio. È giusto, è sacrosanto dire “continuiamo a combattere” indifferente se rivolto a compagni o ad amici o a tutti noi. Ma la realtà è che combattere si fa sempre più arduo. E lui non ce la fece. Probabilmente lo stesso sentimento che provò Pasquale Cavaliere, che si suicidò in modo simile solo quattro anni dopo.

Gli ambientalisti si possono dividere in due categorie di massima: quelli che lo sono di testa, e quelli che lo sono di pancia. Quelli che lo sono di testa, riescono a mantenere un sostanziale distacco dal mondo che li circonda ed a nutrire buone speranze sull’efficacia della loro lotta. Quelli che lo sono di pancia, invece, si fanno trascinare nel Maelstrom e talvolta non riescono più ad emergere. I primi non piangono alla vista della distruzione della natura, i secondi sì.

È probabile che Langer e Cavaliere appartenessero a questa seconda categoria. Chi ama nel profondo la natura è preda dello sconforto, sia per il degrado che avanza, per la sostanziale inutilità della propria lotta. E forse anche per l’esempio di uomo sconfitto che fornisce ai propri figli. Ritirarsi è un gesto di vigliaccheria? Non liquiderei un suicidio in modo così sbrigativo. Chi non ce la fa più merita tutto il nostro rispetto e tutta la nostra comprensione.

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