E’ la virtù dell’uomo immobile. Enrico Letta fa più danni, se così si può dire, da fermo che in movimento. Fa più rumore da silente che da parlante. E’ l’unico che non ha strizzato l’occhio al nuovo padrone del Pd e perciò è come quelle zanzare di notte: innocue ma fastidiosissime. Enrico – da democristiano di eccelsa caratura – ha scelto la mimetizzazione, la riduzione a frate nella incipiente e debordante stagione renziana. Non si vede e non si sente. Chiusa la corrente, chiuso Vedrò, il festival delle amicizie trasversali, chiusa ogni comunicazione pubblica con l’esterno. Finite le strette di mano, contati i tradimenti patiti. Così è la politica, così va il mondo. E lui lo sa. Adesso attende fermo in stazione, come Romano Prodi rivisitato in quella meravigliosa caricatura di Corrado Guzzanti, che il treno lo raggiunga e lo raccolga. Ogni cosa ha il suo tempo, bisogna essere sottomarini. Invisibili ma in vita e in armi.

Così ieri, senza che muovesse un dito, è giunto in cima a una delle tre poltrone in palio all’Unione europea. Il suo nome è iniziato a circolare prima a Londra poi, sui giornali, atterrato in Italia. E Renzi, lasciato vacante il regno di Roma, si è trovato a dover fronteggiare il primo movimento di contrasto alla direzione da lui impressa. Pierluigi Bersani, il predecessore, ha preso il nome di Letta e l’ha scaraventato sulla faccia di Matteo: “Sarebbe un bel colpo per l’Italia se Enrico divenisse presidente del consiglio europeo”. Un bel colpo per chi? E perché? Nella simbologia bellica piddina aver reso questa ipotesi, dichiaratamente lontana dalle intenzioni del premier, come possibile e addirittura praticabile, anzi vicinissima alla realtà, è stato un atto di guerriglia. E infatti lui in persona, il segretario e leader assoluto, da Bruxelles ha confermato la natura molesta della proposta: “Il nome di Letta non è stato mai fatto né negli incontri ufficiali, né nei pour parler”.

Nessuno delle cancellerie europee ha avanzato quel nome. Da escludere che il governo italiano avesse mai avuto intenzione di proporlo. Quindi? Quindi la prova che Bersani, tirando in ballo Letta, abbia proseguito nell’ostruzionismo sordo di quelli alla Vannino Chiti, il senatore che contrasta la riforma costituzionale frutto dell’accordo tra il Pd e Forza Italia. “Bersani come Chiti”, è stata l’equivalenza renziana. E Renzi ha confermato: “E’ sorprendente che tutte le volte che c’è da fare una battaglia in Europa c’è una parte del partito, ancorché minoritaria, che apre discussioni che sembravano chiuse: mi riferisco alle riforme costituzionali”. Per la prima volta una punta di nervosismo, un segno di inquietudine, un alito di contrasto si è manifestato. E il merito è suo, di Enrico.

Da quando, era l’11 febbraio, il Quirinale lo scaricò, convocando Renzi a Palazzo per l’investitura invece che lui, come s’era detto e convenuto, è sparito. Liquido come l’acqua, e pure improvvisamente incolore, insapore, inodore. Una sola uscita pubblica polemica quando Enrico Mentana rilancia in tv la possibilità che si trasferisca nel partito di Angelino Alfano (“notizia inventata, come spesso capita a Mentana quando parla di me”) e poi il silenzio. Sa che i cambi di stagione in politica si sono fatti repentini, le successioni impetuose come pure improvvise le frenate. E la resistenza passa per il più antico dei modelli possibili: fermarsi in un angolo e attendere. Le amicizie non gli mancano, le relazioni europee restano solide e il suo nome, avanzato due giorni fa dal Financial Times, ha reti di protezione, stime acquisite e ricambiate.

Accadrà domani quel che non è accaduto oggi. Perciò calma. Enrico frequenta il Parlamento da deputato semplice ma per l’indispensabile. Non sbuca in tv, non raccoglie, non polemizza. Di clamoroso, davvero straordinario, è stato solo il passaggio di consegne. Quella campanella lasciata cadere nelle mani di Renzi senza uno sguardo, un cenno di cortesia. Un atto di freddezza, la misura dell’insolenza che ha raccolto e in quel momento ha voluto ricambiare. Oggi che persino Massimo D’Alema, il primo dei rottamati, tenta (con fatica) di godere di un po’ di riguardo, l’atto di ostilità che l’ex premier scaraventato a terra manifestò in tutta quella solennità, resta impresso non come un gesto di sconforto ma di dignità. Un modo per separare due mondi e due stili. Matteo oggi è ovunque, Enrico invece passeggia al Testaccio, si prende cura dei figli e sceglie il lessico familiare. Si prepara al prossimo giro, attende sulla riva del fiume. Forse qualcosa accadrà. Nel caso, lui è li.

da Il Fatto Quotidiano del 28 giugno 2014

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