Il 28 giugno è la “Giornata mondiale dell’orgoglio LGBT” o “Gay pride.  Una data simbolo perché nel 1969 i moti di Stonewall cambiarono la storia del movimento omosessuale americano e non solo. Quella retata della polizia allo “Stonewall In”, bar gay di New York, fu solo un episodio come tanti in quel periodo, ma gli esiti e le motivazioni degli arresti, “chi era privo di documenti di identità e quelli vestiti con abiti del sesso opposto”, furono la scintilla che scatenò l’orgoglio che oggi si rivendica con manifestazioni, parate ed eventi. Un giorno in più per una comunità che ha ancora bisogno di date simboliche per reclamare diritti e farsi accettare.
Il movimento LGBT punta al riconoscimento di diritti concreti, che permettano a chi è omosessuale di agire in società senza preclusione in nessun campo. Se sul piano “morale” l’omofobia è stata stigmatizzata anche dal Papa al grido di “Chi sono io per giudicare”, la questione resta complessa sul piano sociale.

Il problema vero è quando chi è gay, giudica una scelta sbagliata dichiararlo pubblicamente. Lo sport è un mondo pieno di tabù e l’omosessualità viene quasi sistematicamente nascosta dagli atleti che calpestano il loro orgoglio per non mettere a rischio il loro portafogli. Queste almeno le motivazioni di chi il coming out l’ha fatto al termine dell’attività agonistica. Il 2013 è stato un anno sorprendente nel quale ben 76 atleti, soprattutto di discipline minori, hanno detto di essere gay. Un gesto di consapevolezza importante che ha preceduto di poco le Olimpiadi di Sochi 2014 ricordate, pure troppo, per la politica anti-gay del presidente russo Putin. In gara a Sochi e dichiaratamente omosessuale era la 27enne pattinatrice sul ghiaccio olandese Ireen Wust che ha vinto l’oro ma anche Barbara Jezersek, forte atleta slovena del fondo. Dichiarati e vincenti verrebbe da dire, ma tornando al timore del danno di “immagine” forse Billie Jane King, grande tennista statunitense, arrivò tardi a maturare l’idea di dichiarare la sua relazione con la sua segretaria e nonostante fosse stata la prima atleta americana a riconoscersi lesbica, lo fece solo negli anni ’80, quando i suoi 12 Slam erano in bacheca da un po’. Diversa la storia di Martina Navratilova, che non vide scalfita la sua “statura” di campionessa, ma anzi, dopo il coming out nel 1981, in piena attività, collezionò 16 dei 18 Slam vinti.

Nel 1994 fu la volta di Greg Louganis, fra i più grandi tuffatori della storia. Anche lui, solo dopo i 4 ori olimpici e i 5 mondiali si rivelò, e prese parte ai Gay Games. Ma Greg aveva nascosto anche di essere sieropositivo al virus Hiv e di esserlo sin da prima delle Olimpiadi di Seul. L’annuncio causò polemiche per via di un incidente accaduto durante le stesse Olimpiadi, quando urtò il trampolino e, sanguinante, si fece medicare per proseguire nella gara che poi vinse.

Tragica la vicenda di Justin Fashanu che nel 1990 divenne il primo calciatore inglese a dichiararsi pubblicamente gay. Ricevette solo ostilità, sia dal mondo sportivo che dalla comunità nera britannica che si ritenne offesa dal coming out. Un settimanale giudicò l’annuncio  “un affronto alla comunità nera, un danno d’immagine, patetico e imperdonabile”. Lo stesso fratello, John, lo rinnegò. Il baratro si aprì sotto i tacchetti di Fashanu, che confessò di sentirsi “solo e disperato”. Per “salvarsi” cambiò continente, e nell’autunno del 1995 entrò a far parte per breve tempo degli Atlanta Ruckus nella Major League Soccer. Dopo il ritiro dall’attività agonistica si spostò a Ellicot City per allenare i Maryland Mania Club ma nel 1998 un diciassettenne lo accusò di violenza sessuale. Riuscì ad evitare il carcere e ritardare il processo ma  la mattina del 3 maggio 1998 il corpo di Fashanu fu trovato a Shoreditch, Londra, impiccato in un garage. Nel suo biglietto d’addio scrisse che sentiva che sarebbe stato ingiustamente giudicato colpevole di aver abusato del ragazzo e poi : “Sperò che il Gesù che amo mi accolga: poi troverò la pace”.

Sono trascorsi appena sedici anni da allora, non parliamo nemmeno dei tempi dello Stonewall Inn, ma nel calcio, dichiarare la propria omosessualità è un rischio troppo alto. I calciatori sono tantissimi e diventano tutti icone di virilità per lo sport “maschio” per eccellenza, i calciatori gay ci sono ma temono di diventare vittime del “gioco” e che il loro pallone si sgonfi. Forse è il momento che qualcuno si prenda la responsabilità di diventare, sul campo, il simbolo di una partita più grande.

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