Si tratta di una decisione importante, per certi versi storica, quella che la Corte Suprema degli Stati Uniti annuncia in queste ore. “I telefoni cellulari non possono essere sottoposti a un’indagine senza l’autorizzazione di un tribunale”, hanno sentenziato i nove giudici della Corte.

In Italia gli inquirenti devono avere l’autorizzazione dal giudice per mettere sotto controllo i telefoni degli indagati. Mentre negli Stati Uniti quella della Corte Suprema viene considerata una decisione importante perché presa all’unanimità e perché, in tempi di intercettazioni e di estesi poteri di polizia e agenzie di intelligence, la massima istanza giuridica americana prende posizione a favore della privacy. La sentenza della Corte è stata scritta dal presidente, John G. Roberts, a dimostrazione dell’importanza che la materia riveste per i giudici. Roberts scrive che l’enorme massa di dati contenuti nei moderni cellulari deve essere protetta da indagini incontrollate, proprio per il carattere così fondamentale che i cellulari hanno raggiunto nella vita di tutti i giorni. I cellulari, secondo Roberts, “sono diventati una parte così insistente e pervasiva della vita che il proverbiale visitatore da Marte potrebbe concludere che essi siano una parte stessa dell’anatomia umana”.

Di qui la necessità di proteggere un oggetto che contiene tante informazioni intime. “Ci sono app con le news sul partito democratico e su quello repubblicano; app per le dipendenze da alcool, droghe e gioco d’azzardo; app per condividere le preghiere; app per risalire ai sintomi della gravidanza; app per pianificare il budget o migliorare la vita romantica di una persona”. Un tale livello di informazioni, scrivono i giudici, non può essere intercettato senza che ci siano motivi davvero gravi. Senza che ci sia, quindi, l’autorizzazione di un tribunale.

Più volte, nel passato, le corti USA hanno giustificato perquisizioni senza mandato della casa di un sospetto, motivando l’azione con la necessità di tutelare la vita degli agenti o di salvare prove importanti dalla distruzione. Nel caso del cellulare, però, i nove giudici della Corte non fanno alcun tipo di eccezione: il cellulare contiene un livello di informazioni private “che in nessun modo si trova in una casa o in un appartamento” e che quindi va tutelato. Non sfugge poi ai giudici che questa sentenza renderà molto più difficile il lavoro di polizia e inquirenti; e che entrare in un cellulare potrebbe offrire “informazioni importanti per incriminare pericolosi criminali”. Ma, valutati i pro e i contro, i giudici decidono di tutelare la privacy a scapito della sicurezza. “La privacy ha sempre un costo”, scrivono.

La decisione della Corte Suprema arriva in risposta a due casi, su cui i tribunali minori avevano preso decisioni differenti. In un caso una corte d’appello della California aveva ritenuto legittima la raccolta di informazioni, senza mandato, dallo smartphone di David Riley, un uomo poi condannato per tentato omicidio e condannato a 15 anni di carcere; in un altro caso, un tribunale di Boston aveva ritenuto non ammissibili le prove ottenute intercettando il cellulare di Brima Wurie, una donna coinvolta in storie di traffico di droga e di armi.

I giudici di Washington fissano dunque le regole, una volta per tutte, facendo pendere il giudizio a favore della privacy. La sentenza ha avuto enorme risalto negli Stati Uniti e in queste ore è discussa e commentata dalla politica di Washington e da tutti i media. Non sfugge del resto a nessuno che una così netta e appassionata difesa della privacy metta in discussione l’attività della National Security Agencyrivelata a partire dal caso Snowden – che sulla raccolta dei metadati telefonici e delle comunicazioni mail ha costruito un sistema di intercettazioni mai così invasivo. Quello che la Corte dice, fanno notare molti osservatori, è che lo sviluppo tecnologico non può giustificare forme di invasione della privacy sempre più sofisticate; e che anzi questo sviluppo rende necessarie nuove regole e protezioni.

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