Amo la nostra Costituzione e sono, in fondo, statalista. Credo che l’uomo, animale sociale, non possa soddisfare i suoi bisogni se non inserito in una qualche comunità. Ubi societas, ibi ius, la necessità delle regole, che mi piace studiare in tutte le loro forme e i risvolti, dall’origine all’effettività. Ad oggi, l’organizzazione sociale dominante nel mondo è quella statale e la forma di governo che più si avvicina all’ideale di giustizia e equità è quella democratica (la peggiore, tranne tutte le altre, nella celebre citazione di Churchill).

Ma qualcosa di profondo sta cambiando. L’idea di Stato subisce una progressiva erosione dovuta da un lato a spinte interne: quelle autonomiste e indipendentiste che spuntano ovunque, ma ancor più gravi quelle individualiste, che nel caso italiano assumono le forme estreme di una corruzione diffusa a tutti i livelli, in cui ognuno sembra voler intascare il possibile per salvarsi dal naufragio in atto. Dall’altro lato, lo Stato si rivela sempre più  im-potente nei confronti di dinamiche globali che i singoli governi non possono controllare.

Uno dei perni su cui si basano le Costituzioni attualmente vigenti nei paesi democratici è costituito dai partiti, necessaria cerniera tra governanti e governati. Come tanti altri strumenti tipici del secolo scorso, i partiti di massa hanno fatto il loro tempo (l’ultimo in qualche modo superstite, il Pd, ha subito anch’esso la definitiva personalizzazione intorno alla figura di Renzi). Tutta roba del ‘900, come lo sono i sindacati e, forse, in un certo senso lo stesso lavoro, con una disoccupazione giovanile che tende al 50%.

Stiamo smantellando tutti quei servizi pubblici con cui, nel mondo in cui eravamo abituati a vivere noi “nativi analogici”, in tutti i paesi occidentali (più o meno intensamente e con maggiore o minore successo) si è cercato di perseguire l’ambizioso obiettivo di un benessere diffuso a tutte le fasce della popolazione. Dallo Stato del benessere, appunto, il welfare State, evoluzione storica che dallo Stato assoluto e attraverso lo Stato di diritto aveva portato allo Stato democratico, la mia impressione è che oggi stiamo andando ineluttabilmente verso lo stato di abbandono.

Inutile e ozioso guardare al passato: rispetto a cento anni fa è cambiato tutto, dalle comunicazioni alle strutture produttive, dai flussi demografici alle composizioni e le dinamiche familiari, dalle ideologie ai diversi atteggiamenti rispetto alle fedi religiose. Se questa non è che una mera constatazione di fatti, non resta che domandarci in che direzione stiamo andando. Cosa saranno gli Stati senza partiti e, alla fine, il mondo senza Stati?

Una risposta, tanto fondata quanto disperata, prova a darcela il regista israeliano Ari Folman nel suo film The congress (prima aveva diretto lo straordinario Valzer con Bashir), che prevede un’umanità fatta di singoli individui che vivono materialmente in un ambiente disastrato e sconsolato ma mentalmente, grazie ai progressi della tecnologia e della chimica, a ognuno è garantito un mondo virtuale in cui sono pienamente soddisfatti tutti i sogni e tutte le aspirazioni.

È un processo già in atto da tempo e tutto quel che possiamo fare è sforzarci di immaginare forme di organizzazione di tipo nuovo che, all’interno degli attuali meccanismi e con le tecnologie più recenti (cui non tutti hanno accesso), possano scongiurare gli effetti più nefasti di queste spinte individualiste. In cerca, ancora una volta, di una maggiore equità e giustizia sociale. O è anche questa roba del ‘900 da buttare al macero?

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