Insieme con le molte cose belle che questo mondiale di calcio, come ogni mondiale porta con sé (ne parleremo), ce ne sono parecchie insopportabili. Una in particolare, la madre di tutte, di cui nessuno parla, è la regia televisiva delle partite. Tutti sono concentrati su quello che sta intorno, pronti a fare ironie, ben motivate sia chiaro, sui talk televisivi che precedono o seguono le partite, sulle figure dei commentatori, sul loro linguaggio, sugli eccessi di enfasi dei telecronisti Sky o sull’impersonalità di quelli della Rai. Tutte cose vere, per carità. Ma del cuore della faccenda, oltre che dei suoi margini, vogliamo parlare?

E allora a me pare che la regia internazionale, quella che organizza le riprese delle partite, sceglie le immagini e i punti di vista, a cui le varie mittenti nazionale aggiungono pochi dettagli, sia del tutto fuori luogo. Frenetica, sempre sopra le righe, retorica, enfatica, così da giustificare l’enfasi dei telecronisti che già ci sguazzano di loro, spezzettata, innamorata dei campi ravvicinati – il gesto, la smorfia del calciatore, della panchina o del tifoso -, ridondante nei replay – 5,6 per un goal che non vale nulla, pensa di mostrare tutto ma in realtà fa vedere ben poco di quello che conta, il gioco. Una regia narcisistica che stimola il narcisismo, che diventa insopportabile quando propone – e lo fa spessissimo – le inquadrature del pubblico.

Con la scusa che siamo in Brasile, patria del carnevale e del travestimento, tutti devono dare il meglio, che poi è il peggio di sé. E allora via con i gladiatori italiani, i galli francesi, con le facce o i corpi pittati, con il protagonismo dello spettatore, perché lo stadio non è più un luogo dove andare per vedere ma per farsi vedere. Il colmo di questa assurda deriva è la recita della parte del tifoso, un genere che la tv italiana ha frequentato assiduamente negli ultimi anni con i suoi contenitori della domenica pomeriggio, ma che qui, in un’occasione sacra come il mondiale, offre momenti e personaggi ancor più fastidiosi e ridicoli. Sono quelli che vivono la partita non per soffrire o gioire sinceramente, come è nella natura vera e assurda del tifo, ma per manifestare platealmente la propria gioia o la propria sofferenza nella speranza di essere inquadrati dalle telecamere e mostrarsi agli occhi del mondo intero.

E’ l’esibizione dell’emozione e della passione più che la passione autentica. Ieri negli ultimi minuti di Italia-Costarica, quando si capiva che non sarebbe stato possibile rimediare alla sconfitta, la regia è andata a cogliere i volti preoccupati e accigliati di un gruppo di giovanotti italiani. E loro, appena si sono visti sul maxischermo, hanno cambiato umore: ilari e gioiosi si sono alzati in piedi sbracciandosi in saluti e alzando il pollice in segno di obiettivo raggiunto. Perché quello che conta per questi pseudo tifosi non è l’esito della partita ma il colpo di fortuna di apparire sul teleschermo. Ora, che gli spettatori sugli spalti facciano un sacco di fesserie è cosa risaputa e forse inevitabile, ma se, invece di inquadrarli, la regia continuasse a seguire quello che succede in campo e che è comunque sempre più interessante del folklore da stadio, se ne gioverebbero la qualità dello spettacolo televisivo e la qualità della vita di chi è davanti al teleschermo perché appassionato del gioco del pallone e non dei vari teatrini che lo circondano. 

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