Sto parlando con Bassam e con alcuni profughi siriani appena arrivati. Si avvicina un uomo che ha i vestiti sporchi e ai piedi porta delle infradito logore. Mi chiede se siamo appena arrivati. Gli dico di sì, voglio sapere che cosa vuole. Poi, mi domanda dove voglio andare. “A Parigi” rispondo sorridendo, “e tu?” . “Non lo so, forse rimango qui. Mi trovo bene. Conosci qualcuno che ti possa portare a Parigi?Sui treni ci sono i controlli!”. Faccio cenno di no con la testa. Mi dice che conosce un italiano e se voglio lo chiama per organizzare la cosa, “il viaggio” dice orgoglioso ” costa solo 450 euro” .

Nascondendo la rabbia, perché ho davanti a me un trafficante di uomini, gli dico che non mi interessa. Lui se ne va, sparisce fra la folla di profughi che affolla il piano rialzato all’entrata principale della stazione centrale di Milano. Mentre continuo a parlare con gli altri siriani, si aggiunge al nostro gruppo un signore. Ha l’aria distinta, nonostante gli abiti sporchi. Indossa un paio di occhiali con le asticelle dorate. Si avvicina a me e si presenta “mi chiamo Salah”. Mi racconta che ha lavorato come tecnico in alcune raffinerie di petrolio in Siria e dice orgoglioso: “Sono di Homs, Bab Sba” . Uno degli altri siriani che fanno gruppo intorno a noi esclama immediatamente: “Homs la capitale della rivoluzione!”. Salah mi indica sua moglie: è stesa, sfinita dal “viaggio” in mare, abbraccia la valigia e vi appoggia la testa sopra. Salah si lamenta con me che è dalla tarda mattina che sono arrivati in stazione e che aspettano di essere portati in uno dei centri che il Comune di Milano ha predisposto per i siriani. Gli dico di aver pazienza e tento di spiegargli che il Comune fa quello che può perché sta gestendo da solo l’emergenza.

Solo i bambini sembra non siano stanchi e non abbiano nulla di cui lamentarsi. Corrono e giocano con i palloncini che una donna italiana gonfia per loro. Questa volontaria, che indossa un naso rosso da clown, sembra un magnete perché in men che non si dica è accerchiata da tutti i bambini. Mi avvicino a lei per tradurre quello che i bambini vogliono. C’è chi vuole un palloncino a forma di spada, chi a corono ecc… Mentre sono lì, si fa avanti una delle mamme e comincia a parlarmi. Mi chiede se sono siriano e io le spiego in breve che mio padre è di Homs, che siamo stati esiliati per una vita e solo per un breve periodo siamo tornati al Paese e che oggi, come loro, non possiamo più tornare. Lei, invece, comincia il suo racconto dicendomi: “I miei bambini – me li indica- sono ancora scioccati dalla guerra. Lo vedi il più piccolo, quello con la corona in testa? Appena provo a parlargli di casa nostra piange. La notte si sveglia perchè dice di sentire il ronzio delle bombe”.

Mentre continua a raccontarmi, si avvicina il marito che mi domanda se so come possono andare in Belgio. Gli dico che ho visto siriani partire con il treno, con l’autobus e so di altri andati con mezzi non legali. Gli consiglio di andare al centro e di riposarsi, poi, dopo, ci avrebbero pensato. Lui arrossisce, mi ringrazia e si scusa perchè non sa nulla. “E’ normale, non abitate qui” dico sorridendo “l’importante è che siete vivi”. Nel frattempo, un’altra donna si avvicina alla volontaria e le dice in inglese: “Voglio raccontarti una storia, seguimi”. Le segue anche io e comincio a tradurre. “Siamo si Yarmuk. Lo conosci? E’ il campo profughi palestinese di Damasco ma noi siamo siriani. Questo signore ti vuole mostrare una cosa”. Ci voltiamo. L’uomo, seduto, tira fuori dalla tasca un cellulare e ci mostra la foto di una bambina magrissima, pelle e ossa. “Il padre è di Yarmuk, non so chi sia. Il nostro campo è stato assediato per mesi dall’esercito del regime. Durante questo periodo hanno vietato l’ingresso nel campo di qualsiasi bene, perfino l’acqua è mancata. C’è un sacco di gente che è morta di fame. Il padre di questa bambina l’ha abbandonata per strada perché non aveva da mangiare. Mio fratello l’ha trovata e con quel poco che aveva l’ha sfamata”. L’uomo sospira e ci fa vedere un’altra foto della bambina: è bellissima, in carne e sorridente. Pare che, nel mezzo di questa tragedia, la bontà esista.

Dopo, quasi in coro, tutti ci tengono a dirmi che non vogliono rimanere in Italia: qui sono solo in transito. Mi chiedono perché l’Europa non conceda un visto di transito temporaneo, così possono raggiungere, senza dover rischiare di morire in mare, la Svezia e gli altri Paesi del Nord Europa. “Siamo scappati dai bombardamenti aerei del regime per rischiare di morire in mare.” mi dice amaramente Khaled, un druso di Suwayda.

Li lascio, si è fatta sera. La protezione civile comincia a portarli nei centri d’accoglienza.

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