La politica monetaria potrebbe paragonarsi alla guida di una moto di grossa cilindrata. Il principiante affronta le curve difficili con l’occhio incollato al ciglio della strada e di conseguenza finisce per impostare male la traiettoria. Il pilota esperto, invece, per dosare con precisione l’inclinazione del corpo lancia lo sguardo oltre la fine della curva. Analogamente, una banca centrale fissata sul breve periodo, o prona a pressioni politiche, rischia di ritrovarsi in una cunetta.

Il sistema finanziario di Eurolandia L’ultima sventagliata di misure della Bce viene decantata come il colpo di acceleratore in vista del rettilineo. Il dubbio, tuttavia, riguarda lo stato del motore, ovvero il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Il sistema finanziario di Eurolandia è imperniato sulle banche tradizionali, frammentate in bantustan (bancustan?) nazionali. L’integrazione dei mercati finanziari è stata avversata pervicacemente dai governi nonostante la moneta unica ne imponesse l’urgenza. La supervisione bancaria finora è stata affidata alle autorità nazionali spesso intente a proteggere e occultare il marciume invece di ripulirlo (prova regina è la farsa degli stress test europei ). In definitiva, ogni impulso da Francoforte si dirama in modo erratico e frastagliato verso le varie economie nazionali affette da patologie diverse che richiederebbero terapie d’urto mirate, non solo antidolorifici (o placebo) monetari. Schematizzando, la politica monetaria esercita scarsa influenza sull’economia reale principalmente in due situazioni: a) se il sistema bancario è ingolfato da prestiti inesigibili o altri detriti finanziari e b) se il ritorno atteso sugli investimenti è basso o addirittura negativo. Nel primo caso si tratta di un problema di offerta di credito, nel secondo caso di domanda anemica.

Dal Fatto Quotidiano dell’11 giugno 2014

Eurolandia è afflitta da entrambi i nocumenti. Prendendo i bilanci del 2013 si nota che le leva finanziaria nel settore bancario (gli attivi patrimoniali in rapporto al capitale azionario) in Europa (incluso Regno Unito e Svizzera) è aumentata da circa 19 volte nel 2007 a 26,5 volte, mentre negli Usa è diminuita nello stesso periodo da 11 a 9,8. Con una leva di 10 uno shock negativo che riduce il valore degli attivi del 10%, azzera il capitale. Un grosso hedge fund si tiene di solito tra 20 e 30. Insomma, mentre oltreoceano sembrano aver ripulito i bilanci, in Europa si arranca, con banche del calibro di Credit Agricole e Deutsche Bank a leva rispettivamente di 43 e di 39 (in discesa da 61 nel 2008). Le maggiori banche italiane se la cavano discretamente con un 16,2 di Unicredit e un 13,6 di Intesa. Dal lato della crescita la situazione è persino peggiore. Rivoluzioni tecnologiche come la telefonia mobile o internet non si avvistano. Le attività tradizionali sono imbrigliate da tali e tanti vincoli, obblighi, balzelli e divieti imposti da burocrati ed autorità varie che nessuno se la sente di trasformarsi in un novello Sisifo da scartoffia. Quando va bene si vivacchia sull’esistente limitando i danni in attesa di un Godot dai contorni indefinibili.

Tra balzelli, obblighi e vincoli burocratici Nella palude di speranze finora i tedeschi se la sono cavata meglio di tutti ma la crescita avrebbe bisogno di energie ed entusiasmi che mancano ad un continente apatico e scontroso di aspiranti pensionati. Servirebbe un colpo di coda dai governi con ampie misure di liberalizzazioni, grandi investimenti in infrastrutture continentali (sottratti alle cricche nazionali), maggiore integrazione dei mercati soprattutto nei servizi, finanziamenti alla ricerca invece che sussidi agricoli. Purtroppo la politica monetaria accomodante raffredda le patate in mano ai governi, instaura nei parlamenti un clima da villeggiatura e dilaziona le decisioni impopolari. Se così fosse i tassi di interesse rasoterra finirebbero per rivestire un valore simbolico, quelli impercettibilmente negativi sui depositi presso la Bce diventerebbero al più una curiosità per gli storici. Anche l’idea di spingere i prestiti al settore privato attraverso il Tltro (“Targeted longer-term refinancing operations”, cioè rifinanziamenti a lungo termine mirati, ndr), buona sulla carta, dipende dalle condizioni che le banche imporranno ai clienti e quanti di essi saranno in grado di soddisfare i requisiti finanziari e patrimoniali.

L’ultima misura annunciata da Draghi, l’acquisto futuro di prestiti cartolarizzati (Asset Backed Securities, Abs), ha un che di beffardo. Per tentare di uscire dalla crisi deflagrata in America proprio a causa di Abs e oscene strutture derivate, si replica il numero. Certo, si assicura che questa volta sarà diverso, si vigilerà sulla qualità, si faranno gli esami del sangue ai venditori. Ma se i prestiti da cartolarizzare fossero di buona qualità perché sbarazzarsene nel compattatore della Bce? E suscita un ulteriore timore. Se il meccanismo di trasmissione della politica monetaria verso l’economia reale è grippato, lo stesso non può dirsi per il meccanismo di trasmissione sui prezzi delle attività finanziarie. I mercati sono galvanizzati dal denaro facile: il comparto azionario macina record (con minima volatilità) e i titoli a reddito fisso seguono a ruota. Addirittura i titoli pubblici irlandesi hanno rendimenti inferiori rispetto a quelli inglesi, i titoli pubblici spagnoli rendono meno di quelli Usa. Da anni si giustificano queste follie con la storia che i mercati anticipano l’economia reale. Da anni la storia si rivela spesso infondata. Pilotare una moto non è esente da rischi.

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