Mentre su quotidiani e siti internet si discute del probabile “effetto Mose” sul risultato dei ballottaggi alle elezioni amministrative e il Pd perde una città storicamente di sinistra come Livorno e risulta sconfitto anche a Urbino, Civitavecchia, Perugia, Potenza e Padova, le domande che circolano sui social network e per la strada, sui tram e al mercato sono: “Che cosa è cambiato in Italia da 20 anni a questa parte?”, “Perché dovremmo andare a votare se poi tutto rimane come prima (o peggio di prima)?”, “Perché dovremmo continuare a pagare le tasse se poi i soldi che abbiamo sudato vanno a finire nelle tasche di qualche politico?”.

Lo stato d’animo generale è quello evocato da un verso dell’Inno di Mameli: dopo aver appreso che i soldi pubblici e, quindi, i soldi nostri non servivano per salvare Venezia dall’acqua alta ma per ristrutturare ville, mantenere barche e comprare capolavori del Canaletto al mercato nero degli oggetti d’arte (fonte La Nuova Venezia) non possiamo che sentirci “calpesti e derisi”.
Il Mose secondo gli annunci fatti alla fine degli anni 80 doveva costare un miliardo e trecento milioni degli attuali euro ma cosa è successo in seguito? Di anno in anno il costo è lievitato, è arrivato a cinque miliardi di euro e, probabilmente, sfonderà pure la soglia dei sei miliardi.

Era il 4 novembre del 1988 quando l’allora vicepresidente del Consiglio Gianni De Michelis presentò il progetto per il Mose e disse: “La scadenza (per la fine dei lavori) resta quella del 1995. Certo potrebbe esserci un piccolo slittamento…”. Uno slittamento che sa di presa per i fondelli perché un’opera considerata urgente dopo 26 anni non è ancora conclusa e i costi si sono gonfiati per via delle tangenti, delle mazzette e degli “stipendi” che nel corso degli anni imprenditori hanno elargito a politici e autorità che avevano il compito di vigilare sui lavori. Tangenti, mazzette e stipendi distribuiti per ottenere in cambio favori o per eludere i controlli come si evince dalle carte della procura di Venezia.

Come sappiamo, fra gli arrestati e gli indagati oltre all’ex governatore del Veneto ed ex ministro Giancarlo Galan oggi deputato di Forza Italia e al sindaco di Venezia Giorgio Orsoni in quota Pd, compaiono altri politici, imprenditori, magistrati e persino un ex generale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, il quale, secondo le notizie diffuse nelle ultime ore, avrebbe sotterrato nel giardino di casa sua 200.000 euro in contanti, parte della tangente ricevuta per la sua attività di copertura e controinformazione.

A rendere ancora più assurda tutta la vicenda ci si mette anche l’avvocato difensore di Galan che, intervistato dalla trasmissione “L’aria che tira”, afferma che il suo assistito possiede “solo” la villa sui colli padovani la cui ristrutturazione costata 450.000 euro non è frutto di favori, una “casetta” in Croazia e una “barchetta” di circa 6 metri e aggiunge: “Nulla di più di quanto possiede la famiglia media italiana”. Beh, al di là del fatto che c’è una richiesta d’arresto in attesa dell’autorizzazione a procedere, forse Galan dovrebbe cambiare totalmente strategia difensiva.

Come afferma Antonio Di Pietro nella video-intervista che mi ha concesso lunedì scorso (www.voltinuovi.it) due sono le cose: o il pool di Mani Pulite arrestò solo i più fessi e lasciò in giro i più furbi oppure, ipotesi molto più probabile, il brodo di coltura della corruzione di questi ultimi 20 anni sono state la depenalizzazione del falso in bilancio, l’abbreviazione dei tempi di prescrizione, l’assenza del reato di autoriciclaggio, la sopravvivenza dei paradisi fiscali complice l’ipocrisia internazionale e la cancellazione delle regole sugli appalti pubblici in nome di un’urgenza proclamata solo a parole ma mai tradotta nei fatti.
Renzi prenda nota, non è mai troppo tardi.
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