L’8 giugno a Perugia si è scritta una pagina inaspettata. Nella città, da 70 anni governata dal centrosinistra, ha trionfato il candidato sindaco di Forza Italia Andrea Romizi, che ha staccato l’uscente Wladimiro Boccali di quasi di 17 punti. Un risultato inimmaginabile fino a qualche tempo fa, se si pensa che nel 2004 Renato Locchi (Ds), al secondo mandato, vinse con oltre il 66 per cento dei voti e che cinque anni anni fa, lo stesso Boccali era stato eletto già al primo turno.

Romizi, avvocato di 35 anni (dieci passati in Consiglio comunale, di cui è stato vicepresidente), ha vinto con 13mila voti più del primo turno. Al ballottaggio ha avuto l’appoggio anche di due liste civiche, fra cui quella ecologista. Il primo cittadino uscente invece, rispetto al 25 maggio, ha perso 14mila elettori. Un risultato su cui da un lato hanno pesato l’affluenza, che si è fermata al 49 per cento, e la scarsa mobilitazione della sinistra, dall’altro una campagna elettorale giocata dal candidato del centrodestra sui temi della sicurezza e del rilancio della città. I principali motivi di insoddisfazione dei cittadini nei confronti dell’amministrazione comunale.

Secondo Boccali questo voto è stato un “referendum” sulla sua persona. Ma in molti, come la presidente della Regione, Catiuscia Marini, o la vicepresidente della Camera, Marina Sereni, tendono a togliere dalle sole spalle del primo cittadino uscente la responsabilità della sconfitta, ribadendo che in questo evento negativo è coinvolto tutto il Pd umbro e che ora serve un confronto per individuare una nuova classe dirigente all’altezza delle prossime sfide, come le elezioni regionali del prossimo anno.

“I perugini hanno scelto la discontinuità. Boccali era in Comune da 15 anni, di cui 5 da sindaco, troppi. Ormai nel Partito democratico, a Perugia, c’era una lotta di clan, una battaglia per il potere e le poltrone più che per le proposte. La città era sulla bocca di tutti per il degrado e per la droga e la classe dirigente era sorda alle richieste dei cittadini”. A dirlo non è un membro del centrodestra, ma uno dei fondatori del Pd Dramane Wagué. Intellettuale cattolico originario del Mali, con un passato in tutto l’arco della sinistra istituzionale: in consiglio comunale nel 1999 come indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista, confluito poi nella Margherita e infine nel Pd, da cui si è allontanato alcuni anni fa. In queste elezioni amministrative era candidato alla carica di primo cittadino con una lista civica “Idee per Perugia“. Al ballottaggio ha scelto di appoggiare Romizi in base a un accordo programmatico con al centro il problema della sicurezza, della cementificazione e del recupero delle aree verdi. “Ma anche la riqualificazione di vaste strutture comunali come l’ex carcere e il mercato coperto, ora abbandonate a se stesse. Un progetto comune che non guarda alla politica ma alla città”.

Sulla sconfitta del Pd perugino hanno pesato ombre e problematiche vecchie e nuove. “Ha inciso la questione degli appalti, sui quali serve maggiore trasparenza”, afferma Wagué. È fresca nella memoria dei cittadini la vicenda di “Sanitopoli”, che ha chiamato in causa membri del partito oltre che l’ex presidente della Regione Umbria Maria Rita Lorenzetti (coinvolta anche nell’inchiesta sul Tav fiorentino). Poi c’è la questione delle due partecipate del comune, “Gesenu, titolare dello smalimento dei rifiuti e Umbria Mobilità, che gestisce il trasporto regionale, entrambe fortemente indebitate. La prima – spiega Tommaso Morettini, presidente del comitato cittadino “Perugia non è la capitale della droga” – dal primo giungo è senza amministratore delegato, dopo che Luciano Ventanni ha rassegnato le dimissioni per la grave situazioni dei conti, che metterebbe a rischio i dipendenti. La seconda nelle ultime settimane ha annunciato una rilevante riduzione del servizio per motivi di budget”.

D’esempio poi è il risultato elettorale di Romizi nel centro storico della città, dove ha preso oltre il 70 per cento dei consensi. “Una situazione grave, quella della parte vecchia della città, dove l’aumento della microcriminalità e dello spaccio, oltre che essere un problema, ha creato anche un’immagine drammatica di Perugia, mostrata di recente dai media nel servizio di Anno Uno“. Una rappresentazione sviluppatasi con l’omicidio Kercher e da cui la città non è più riuscita a liberarsi. “Negli ultimi anni c’è stata una desertificazione dell’acropoli. Migliaia di abitanti se ne sono andati, tantissimi esercizi commerciali hanno chiuso. Questo anche a causa delle scelte del Comune che l’ha chiuso con la Ztl, senza sopperire con un incremento dei servizi pubblici o agevolazioni nei parcheggi. Fra i più costosi d’Italia, che l’amministrazione ha ceduto a una società spegnola”, spiega Gianluca Laurenzi del comitato cittadino “Perugia non è la capitale della droga”.

Il nodo mobilità è vasto, spiega ancora Wagué: “C’è anche la questione del minimetrò (una ferrovia soprelevata che attraversa la città, realizzata durante il mandato di Boccali ndr.) che avrebbe dovuto permettere ai cittadini di vivere il centro storico senza utilizzare le automobili, non ha raggiunto lo scopo. È rimasto un tassello di un più vasto progetto di viabilità, mai completato, che oggi è inattuale per lo sviluppo che ha avuto la città ma i cui alti costi continuano a gravare sui cittadini”.

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