La scorsa settimana ho tentato di delineare, in poche righe, quello che in psico-fisiologia si intende per paura di vincere.

Pierluigi Bersani ospite della trasmissione televisiva Bersaglio MobileOggi vorrei formulare un’ipotesi sulla campagna elettorale di Bersani nel 2013. Premetto che non parlerò della persona fisica Bersani Pierluigi, che non conosco, ma piuttosto della figura istituzionale e cioè l’allora onorevole segretario del Partito Democratico che, presumo, concordasse strategie, idee, slogan e decisioni riguardo alla campagna elettorale con uno staff di collaboratori. Se sull’immagine pubblica, che spontaneamente i politici offrono ai mass media, si possono elaborare idee credo che debba essere rispettata la sfera privata.

E’ indubbio che all’inizio del 2013 il  Pd godesse nei sondaggi di un grande vantaggio che poi svanì quasi completamente nelle urne. E’ stato fatto il paragone con una squadra di calcio che sta vincendo tre a zero e che si fa rimontare. Molti commentatori hanno individuato errori nella conduzione della campagna elettorale che provo a riassumere:

  1. aver snobbato il mezzo televisivo lasciando a Berlusconi il predominio nelle presenze alle trasmissioni;

  2. essere stati lontano dalle piazze lasciando a Grillo il predominio visivo di folle osannanti;

  3. aver formulato l‘idea che col 51% si sarebbe governato come se si avesse il 49% dando così l’impressione di non avere  un progetto forte e innovativo ma di ricercare il consociativismo appiattendosi sulle strategie del vecchio governo Monti.

  4. aver accettato slogan mutuati da altri senza imporre il proprio: all’inizio lo slogan era “Italia bene comune” ma ben presto sull’onda delle battute di Crozza divenne “lo smacchiamo”.

Queste valutazioni sfruttano il, così detto, “senno del poi” per cui non sapremo mai come sarebbe andata con una conduzione diversa. L’ipotesi che gli errori elencati siano frutto della paura di vincere è però suggestiva.

La dirigenza Pd dell’inizio 2013 veniva in gran parte dalla storia del Partito Comunista poi divenuto Pds e Ds. In questo raggruppamento permaneva il peccato originale di essere stati ideologicamente dalla parte dei regimi autoritari comunisti. Una sorta di senso di colpa conseguente portava all’idea di non voler stravincere ma di ricercare un accordo con gli avversari per dimostrare di essersi emendati dal totalitarismo. Da questa impostazione emergeva la titubanza nel presentare progetti innovativi e proposte di concreto cambiamento della società. Era, inoltre, evidente il timore di non formulare promesse per non trovarsi, dopo la presumibile vittoria, di fronte ad aspettative difficilmente esaudibili. La sicurezza di essere sul punto di vincere, invece di stimolare a presentare progetti o formulare visioni del futuro, metteva sulla difensiva la strategia comunicativa. Mentre gli altri promettevano redditi di cittadinanza da mille euro o mirabolanti riduzioni delle tasse la dirigenza democratica sembrava già insediata a palazzo Chigi e, quindi, titubante e circospetta.

L’ipotesi che queste pulsioni psicologiche abbiano influito per determinare la paura di vincere può servire a far luce su errori altrimenti difficilmente comprensibili, soprattutto per uno staff di persone preposte al lancio di una campagna elettorale.  

Per mancanza di spazio rimando  le ipotesi sulla paura di vincere di Grillo nel 2014 alla prossima settimana.

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