Siamo una generazione scesa al compromesso. Eleonora me lo dice e mentre lo fa, lo realizza lei stessa per la prima volta, con lo sguardo basso e perso in pensieri che ora, riesco quasi a vederli, acquistano un senso diverso. Ha 30 anni, viene da un paese di 3.000 anime in provincia di Sassari e si è laureata in Psicologia a Padova. Ora vive e lavora come psicologa in una casa-famiglia per bambini psicotici e autistici a Bruxelles, in Belgio.

Questo è il suo compromesso, “perché qui ho scelto la realizzazione professionale ma ho rinunciato all’Italia, alla mia famiglia e ai miei amici. L’Italia mi manca, mi mancano le stupidaggini, l’odore primaverile dell’aria, il buon cibo, il tono di voce eccessivamente alto nei ristoranti. Sono cliché ma sono quelli che ti mancano di più, quando sei via”, racconta.

La scelta di partire per il Belgio è arrivata un po’ per questioni personali, un po’ per la voglia di fare questa famosa ‘esperienza all’estero. “Ho conosciuto l’esistenza del centro dove lavoro all’università– ricorda Eleonora – e poiché dopo la laurea hai l’obbligo di fare un anno di tirocinio per poter sostenere l’esame di stato, ho deciso di fare sei mesi in Italia e sei all’estero. Ho sostenuto il colloquio in francese e dopo due giorni mi hanno comunicato che ero stata scelta, era il 2011”.

Trasferirsi, cambiare lingua, i contatti umani all’inizio sempre difficili, la novità e la paura matta della novità. Le piccole e grandi scommesse del ‘prendere e partire’ Eleonora le ricorda con qualche sorriso e lo sguardo che è altrove, a richiamare a sé vecchie immagini e vivide emozioni, davanti a una blanche avec citron, con l’aria di una superstite a una calamità naturale che ora vede la sua vecchia casa di nuovo in piedi.

L’idea del compromesso si è mostrata a noi soltanto alla fine di questa chiacchierata di un’ora, ma adesso mi  sembra essere il fil rouge di tutte le storie fin qui raccontate. Forse non tutti,  ma spesso è per compromesso che si parte e con molta probabilità, in tempi diversi, l’esperienza all’estero in sé non si sarebbe portata dietro il fardello della necessità, casomai fosse quello a rendere il nostro bagaglio sempre sopra il limite consentito in aeroporto. 

“Dopo il tirocinio sono rimasta e tramite un contatto, ho iniziato a lavorare in una casa famiglia come educatrice per sei mesi, facevo il turno di notte”, mi racconta, “dopodiché sono stata quattro mesi a cercare lavoro e inviare curriculum. È stata dura perché era una situazione di stallo. Oppressa dalla disoccupazione non sapevo se tornare, soprattutto per i costi della vita qui, o restare e continuare a cercare”.

Eleonora ha scelto di giocarsela ed è restata. “A ottobre dell’anno scorso,  grazie a dei fondi statali che si sono sbloccati, i titolari del centro dove sto ora  mi hanno proposto un contratto part-time che io ho firmato, ammetto, senza leggere, tanta era la gioia e l’emozione.  Era un contratto a tempo indeterminato. Nella mia mente di giovane italiana che cerca lavoro un contratto del genere al primo colpo non esiste, e quando ho visto che era cosi è stato… bellissimo”. Indescrivibile.

“Ho avuto fortuna”, mi dice.
 “Ma no, te lo sei meritato, dai, sono passati tre anni” le rispondo.
 “ No no, ho avuto fortuna, non è sempre cosi, me la sono sudata ma se non si fossero sbloccati quei fondi avrei continuato non so per quanto tempo a fare sostituzioni. In Italia è questa spinta che manca, ma non voglio fare comparazioni, non sarebbe giusto e perché non ne ho fatto esperienza”.
Quello che sa è che “a quattro anni dalla laurea, molte mie amiche continuano a fare stage non pagati, master o corsi, con la promessa della possibilità di un’assunzione. La cosa scoraggiante è che pesi gli anni che hai vissuto, le energie spese cerando di fare al meglio quello che volevi, ma poi non hai un minimo di riscontro”.

All’estero spesso c’è, se non altro perché anche da tirocinante vieni trattato come uno che lavora “qui sentivo di avere un lavoro mio, di poter avere mie idee ed esprimermi. In Italia spesso fai quello che qualcun altro non ha tempo di fare, non ne hai la responsabilità, e poi non vieni preso seriamente”. E qui arriva il grande paradosso dei tempi della crisi: “Sei appena laureato quindi devi fare stage per fare esperienza, ma più stage fai meno trovi lavoro perché sono solo stage e non vere esperienze lavorative”, e intanto arrivi a 30 anni senza neanche sapere come, tra gli sguardi compassionevoli del tutor di turno che alla tua età era almeno sposato e con qualche anno di contributi già versato.

Ma è una generazione in esilio, la nostra. Vai all’estero perché per te in Italia ti dicono che “non c’è lavoro”, quindi scegli il compromesso: una vita professionale e delle opportunità, al prezzo del luogo dove sei cresciuto. Oppure famiglia, amici, casa e stabilità, ma lavorando nella norcineria dei genitori, con una laurea specialistica alle spalle e una conoscenza dell’inglese fluent.

 

Articolo Precedente

“In Nuova Zelanda ho creato un ‘Trip Advisor’ per affitti. E sono bioinformatico”

next
Articolo Successivo

“Dall’hi-tech di Palo Alto ai teatri di Broadway, conta la voglia di rischiare”

next