Giro d’Italia o sagra colombiana? Ti aspetti Nairo Quintana, arriva primo Juliàn David Arredondo Moreno, di Ciudad Bolivar. Ti aspetti Fabio Aru, arriva secondo un altro Fabio, Duarte Arevalo, altro colombiano che ha spesso movimentato le tappe di questo Giro con fughe e attacchi in salita. Nel primo giorno del micidiale trittico che include arrivo in salita al Rifugio Panarotta, tra le vette della Valsugana, cronoscalata secca a Crespano sul Grappa – 26.800 chilometri pendenze sino al 14 per cento – ed infine la resa dei conti sulle decisive e fatali rampe dello Zoncolan, in programma sabato, non succede nulla, o quasi. Almeno, nulla se si guarda la classifica: l’unico che strappa qualcosina è Fabio Aru, tre minuscoli secondi che però lo issano al quarto posto in classifica, a sentire l’odore del podio virtualmente occupato da Quintana, da Rigoberto Uran Uran e dal francese Pierre Rolland. Il quale ha appena due secondi di vantaggio, rispetto all’italiano che è a pari merito con il polacco Rafal Majka. Il quale, poveraccio, pare soffra di mal di stomaco. Ci ha rimesso le penne Cadel Evans, crollato al nono posto.

Ma se si filtra con attenzione la tappa che si è diluita da Belluno al Rifugio Panarotta, ci accorgiamo che Quintana ha marcato stretto gli avversari e non gli ha consentito grandi spazi di manovra. La Movistar, la formazione della maglia rosa, ha bloccato i tentativi dell’Europcar di lanciare e proteggere la fuga di Rolland. Curiosamente, Rolland e i suoi hanno aiutato Quintana nella rocambolesca discesa dello Stelvio, la gran madre delle polemiche di questi giorni. Per vendicarsi, bisogna avere le gambe. Quintana ha stoppato sempre gli attacchi, magari con un po’ di affanno, ma c’è riuscito. Il primo round è suo. Chi vede in Rigoberto Uran Uran il nemico di Nairo, sbaglia. La corsa ha dimostrato che anche Uran ha cercato di tamponare gli scatti dei rivali che ambiscono al podio del Giro. Ha provato ad attaccare Quintana e la maglia rosa lo ha francobollato. Scaramucce, nulla di serio. Più scena che altro. I due colombiani fanno in fondo corsa parallela. Quando ho chiesto a Uran Uran chi vincerà, secondo lui, questo Giro, mi ha risposto: “Un colombiano”. Perché non ha detto: “Io ci proverò”?.

E’ un Giro piccolo, consolatorio. Hanno vinto tappe corridori che non vincevano più, vedi Ulissi, o che non riuscivano a vincere, vedi Pirazzi. E’ un Giro di cattiverie, di furbizie. Talvolta, di gesti sublimi: subito dopo la caduta di Montecassino, Paolino Tiralongo è sceso dalla bicicletta e si è messo a soccorrere Gianpaolo Caruso, siciliano come lui, ma in quel momento una persona ferita, immobile sull’asfalto. Questa è una delle immagini simbolo di questo Giro, a differenza della fortunata coincidenza che in testa al gruppo, tra gli illesi, c’era il capitano di lungo corso Cadel Evans.

Lo sport, al contrario delle belle frasi decoubertiniane, non è affatto improntato alla filosfia del porgi l’altra guancia, ma in quella più feroce del mors tua vita mea. Ogni corsa a tappe è come una guerra. Ogni tappa, una battaglia. Si contano feriti e morti, metaforicamente pedalando. Occorre essere generali e arditi, squadre speciali e coraggiosi fantaccini. L’audacia favorisce le imprese. La fortuna agevola le vittorie. Poi, ci sono quei ciclisti che infiammano i cuori. Per come corrono. Per come osano. Perché Pantani è ancora così popolare? Al di là delle sue drammatiche vicissitudini, delle esclusioni per valori ematici non conformi, resta nella memoria della gente il Pirata che va all’arrembaggio. Se non osi, non sarai un campione.

Oggi, nel suo piccolo, Arredondo ha corso una tappa all’attacco, alla morte, all’ultimo fiato. E’ giunto sul traguardo appeso al manubrio, in debito di ossigeno, sull’ultima pendenza deve aver visto la madonna. Ondeggiava, la bici, come barchetta in un mare tempestoso. Vacillava come Dorando Pietri nella maratona vinta persa. Si è voltato indietro per vedere se il compagno di squadra Duarte poteva batterlo, quando ha capito che era troppo lontano per raggiungerlo, ha spinto con la disperazione che spinge i cercatori d’oro a scovare il filone dei loro sogni. La squadra Colombia è sponsorizzata dal governo di Bogotà. Ma è guidata dallo scafato bergamasco Claudio Corti. Una squadra di piccolo budget, rispetto alle multinazionali come Sky, Bmc, Movistar Astana o Katiusha: appena 3,5 milioni di euro. Stipendi bassi (i più bravi arrivano a 50mila euro), e un contratto che scade a mesi.

In Colombia ci sono appena state le elezioni. Corti temeva un ribaltone politico e magari un cambiamento di rotta nelle strategie promozionali dello sport boliviano. Non è stato così e Corti può tirare un sospiro di sollievo. Arredondo è saldamente in testa alla classifica del Gran Premio della Montagna che ha un albo d’oro in cui c’è tutta la storia del ciclismo. Oltre a questo prestigioso trofeo, ha incamerato una delle tappe più importanti. Insomma, missione compiuta. E, forse, un’altra stagione salvata. Col ciclismo di oggi si naviga a vista. Senza sapere che domani avrai. Per questo gli indios andini come Quintana, Arredondo o Duarte lottano senza pietà. E’ una questione di pura sopravvivenza. Pedalare affranca.

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