“A chiunque arrivi qui mostro questo paesaggio e dico: benvenuti a Caserta. Voglio far sapere a tutti che la nostra provincia non è solo la terra dei fuochi”. Manuel Lombardi ci accoglie davanti a un panorama mozzafiato in una splendida giornata di sole, con alberi in fiore, vigneti e pecore al pascolo, nell’agriturismo di cui è titolare, “Le Campestre”. Siamo nelle campagne intorno al piccolo borgo di Castel di Sasso, nella zona preappenninica della provincia di Caserta, non lontano dai monti del Matese.

L’altra faccia della Provincia di Caserta
Il fiume Volturno divide la provincia in due aree distinte dal punto di vista geografico, ambientale e anche storico: a Sud e a Ovest c’è una grande pianura che include l’area di Caserta, l’Agro Aversano e il litorale domizio, ovvero le zone più urbanizzate e tristemente note per gli sversamenti di rifiuti illeciti della camorra e per i roghi tossici. A Nord-Est del corso d’acqua la morfologia del territorio è completamente differente, si incontrano prima le colline e poi i monti, c’è verde ovunque, campagne e piccoli borghi. Si tratta di un’area legata storicamente alla provincia di Benevento e al popolo sannita. Siamo a 400 metri sul livello del mare: qui l’aria è pulita, la natura incontaminata e i cibi sani, prodotti nel rispetto dell’ambiente e del territorio. I paesaggi non hanno nulla da invidiare a quelli dell’Umbria e della Toscana. Eppure siamo nella provincia di Caserta, in quella che nell’immaginario italiano e internazionale è una zona dalla quale è meglio tenersi alla larga e, soprattutto, dalla quale è meglio non acquistare i prodotti alimentari. 

La riscoperta del formaggio più antico d’Italia
Manuel ha 38 anni e ha deciso di dedicarsi all’agricoltura per raccogliere l’eredità del suo fratello minore, Fabio, scomparso a 22 anni in un incidente mentre lavorava nei campi del suo agriturismo. All’inizio Manuel aveva scelto l’università e la vita in città, aprendo un’attività commerciale legata all’informatica, mentre Fabio percorreva la strada tracciata dai genitori: la gestione dell’agriturismo, parallelamente alla riscoperta di uno dei più antichi formaggi d’Italia: il conciato romano. “Non ho potuto fare altro che tornare qui e lavorare anch’io la terra, nel nome di mio fratello – racconta Manuel – Il conciato romano, dopo anni di abbandono, sta conoscendo un rinnovato interesse, tanto da essere diventato presidio slow food unico nella provincia di Caserta. Abbiamo ripreso l’antica tecnica, già conosciuta dai romani e citata anche dal poeta Marziale, che consiste nel rompere a mano la cagliata, modellarla e salarla a secco, sottoporre il formaggio così ottenuto alla concia, poi al trattamento superficiale con olio d’oliva, aceto di vino casavecchia, piperna e peperoncino, e infine alla stagionatura in orci di terracotta dai 6 ai 20 mesi”.

Il conciato si presenta al naso come uno schiaffo, col suo odore deciso e ostico, ma bastano pochi secondi dopo l’assaggio per apprezzarne il gusto autentico, antico, accompagnandolo con un buon vino bianco prodotto dalla famiglia Lombardi. Salutiamo Manuel e da Castel di Sasso, dopo aver percorso impervie salite, ci spostiamo a soli 5 chilometri di distanza, nel piccolo borgo di Villa Santa Croce, frazione del comune di Piana di Monte Verna. Qui troviamo i fratelli Lino e Mimmo Barbiero, titolari dell’azienda agricola “La sbecciatrice”.

Il ritorno alla terra dei nonni
La scelta di ritornare alla terra non è stata un ripiego alla mancanza di lavoro ma una scelta premeditata, che affonda le radici in un’infanzia ancora viva nella memoria, trascorsa a bordo del trattore del nonno, nel ventre di una natura incontaminata, tra terre coltivate da generazioni. Nelle viuzze del paese si incontrano solo anziani, pochi sono i giovani rimasti a difendere le ricchezze e le tradizioni del loro paese, qui dove non si trova nemmeno un bar ma le porte delle case sono sempre aperte per offrire ai passanti una tazza di caffè. “Ho sempre amato la natura e, sin da bambino, volevo ricalcare le orme dei miei nonni, riannodando il filo della tradizione dopo che i miei genitori avevano abbandonato la terra per inseguire il posto fisso”, racconta Lino, titolare dell’azienda agricola. Così ha studiato Scienze della natura all’università e, insieme al fratello, tre anni fa ha iniziato a recuperare e a piantare dei semi, a parlare con i contadini del paese per apprendere le vecchie tecniche di coltivazione, cercando di adattarle alla modernità grazie ai loro studi e al confronto con agronomi, ricercatori ed esperti di biodiversità. Volevano che l’azienda portasse già nel nome il loro legame con i vecchi di famiglia: “Mio nonno era mugnaio e conserva ancora un attrezzo che serviva per rimuovere la veccia dal grano, la svecciatrice, ma lui in dialetto diceva sempre ‘a’ sbecciatric’, e così abbiamo voluto conservare la sonorità della lingua locale”, spiega Lino. “Per ora non vendiamo prodotti freschi – aggiunge Mimmo – preferiamo fare le conserve, in modo da salvaguardare la genuinità e la qualità fino al prodotto finito”.

I fratelli Barbiero producono “un pomodoro dal sapore antico”, il pomodoro riccio, ma anche olive, zucche, fagioli e legumi molto particolari, come il cece nero. “Per noi l’agricoltura deve essere a bassissimo impatto ambientale e basata sulla valorizzazione della biodiversità, ma ritornare alla terra significa anche ritrovare la socialità: rivivere il cortile di casa per selezionare i prodotti è bellissimo, mentre lo facciamo c’è nostra nonna che ci racconta le sue storie d’infanzia o ci canta una canzone”. Lino ci spiega qual è la loro idea della “terra dei fuochi”: “Mio nonno, quando sente delle terre inquinate della nostra Regione, dice in dialetto: ‘Hai visto che succede nell’altro mondo?’. E anche noi guardiamo quelle realtà come se non fossero a due passi da casa, un po’ come le guarda chi vive a Trieste o a Torino“.

Prima di andar via, i due fratelli ci mostrano i semi che conservano gelosamente in cinque barattoli, e che a breve pianteranno. “Guarda qui, tocca. Questa è la nostra ricchezza e dobbiamo proteggerla. Questi semi sono preziosi, la forza della nostra natura, il frutto del lavoro e del sacrificio di tante generazioni che ci hanno preceduto, mentre creare in laboratorio prodotti tutti uguali va contro le leggi della natura. Quella per la difesa del seme, secondo noi, sarà la battaglia del futuro”, conclude Lino.

Agronomo per difendere il territorio
Ci spostiamo una decina di chilometri più a nord e incontriamo Vincenzo Coppola, figlio di contadini e di una madre che lo ha sempre educato alla comprensione della qualità e genuinità dei prodotti. La facoltà di Scienze agrarie a Portici gli ha fornito un enorme bagaglio di conoscenze e, a quel punto, ha deciso di rimanere nella sua Ruviano, dove lavora come agronomo, offrendo consulenza in campo agricolo e prescrivendo fitofarmaci per ridurre l’utilizzo di pesticidi ed evitare che ci siano ricadute negative sulla salute del territorio. Ciò che più lo appassiona è la ricerca dei semi di specie vegetali a rischio di estinzione ed erosione genetica nel suo territorio, come i ceci delle colline caiatine, i fagioli a curnicillo, il pomodoro riccio, il grano autoctono Nostrum. Ogni volta che incontra un anziano della sua zona, gli chiede se conserva qualche antico seme e va a recuperarlo. Si tratta della sua battaglia per la biodiversità e per la difesa del territorio, contro il mercato dei semi delle multinazionali. Questa passione ha portato Vincenzo a collaborare con quella che è considerata da molti esperti di gastronomia una delle migliori pizzerie al mondo, “Pepe in grani” di Franco Pepe, che si trova in uno dei maggiori centri della zona, Caiazzo, ed è un vero motore produttivo del territorio. Quest’anno si è aggiudicata il premio del Gambero Rosso per il migliore impasto della pizza, fatto in maniera totalmente artigianale: anche grazie al lavoro di Vincenzo nascerà presto una pizza a chilometro zero, fatta solo con prodotti iperlocali, dal grano alla farina, dal pomodoro alla mozzarella. Vincenzo è un giovane orgoglioso della sua terra e non andrà via: “Questa zona dell’alto Casertano è un piccolo paradiso e purtroppo ancora pochi l’hanno capito. Io resto qui anche per provare a cambiare le cose, nel mio piccolo”.

di Antonio Siragusa

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