Sono tre i nodi da tenere presenti per capire la crisi e tentare di risolverla. Il primo è la finanza moderna: la pretesa di creare denaro dal nulla, attribuendo del valore economico anche se non c’è. Un artificio che per mascherarsi ha bisogno di trucchi contabili sempre più complessi generando bolle speculative gigantesche, destinate a schiantarsi quando a un certo punto la realtà si presenta con una semplice domanda: e adesso chi paga? Si è visto che a pagare siamo sempre noi, che ci troviamo a ripianare con le nostre tasse i debiti di banche che se fallissero farebbero crollare l’intero sistema. Conversando con un amico banchiere ho appreso che nel 2007 la massa monetaria stimata era 350 volte l’economia reale. Se aggiungiamo i frutti di evasione, non è difficile immaginare fino a che punto fosse drogata la nostra economia pre-crisi. Questa pioggia di ricchezza virtuale e la massa di lavoratori disponibili nei paesi emergenti, ha creato un corto circuito non più sostenibile. Il risveglio è stato brusco dopo anni in cui il lusso è stato promosso a consumo quotidiano, ed erano saltati tutti gli equilibri su cui si fonda una società sana e laboriosa.

L’altro nodo è il culto dell’”immagine” di cui noi italiani siamo campioni. Quella serie di emozioni sovrapposte al prodotto per giustificare prezzi che anche multipli rispetto al valore reale. Basta una bella confezione fatta bene per ritenere che dentro vi sia un oggetto di valore. Al posto di perseguire un sensato rapporto qualità/prezzo troppi imprenditori sono stati sedotti dal culto del brand: produrre a 100, spenderne 300 di comunicazione per vendere a 1000. Nel settore moda ciò ha raggiunto livelli da autentica truffa. Lo stilista “artista”, il capo di vestiario “opera d’arte”. Veniva condannato (a ragione) il falsario che attacca il coccodrillo a una maglietta da 5 euro e la vende a 15, e celebrato l’imprenditore che in negozio vende la stessa maglietta di 5 euro a 100. È una bolla speculativa anche qui e chi paga è il consumatore ingenuo che si fa abbindolare.

Infine c’è il jolly: il “marchio”, che non è solo il nome del prodotto o di una azienda, ma una variabile di bilancio che provvede a tutto con speculazioni folli. Le grandi società mettono a bilancio un valore del marchio che prescinde dalla presenza di un qualunque ipotetico compratore. Così con la complicità di banche questa voce può riequilibrare bilanci, aggiungere valore per quotazioni in Borsa, dirottare Royalty su società in paradisi fiscali.

Questo è uno spunto di riflessione, il quadro è assai più complesso. Ma finché gli ambienti imprenditoriali e della finanza abuseranno di queste dinamiche senza alcun organo di controllo e senza coscienza dei cittadini/consumatori nelle scelte individuali questa crisi girerà su se stessa. Vedo già membri della nuova classe dirigente che intendono risolvere la crisi rifacendosi alle cause che l’hanno prodotta. Oggi abbiamo più che mai bisogno di governi e imprenditori di grande levatura ma con i piedi per terra. Per me resta valida l’espressione del grande Italo Calvino: “la soluzione sta nel lavoro e nel risparmio”.

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