Mentre navi cinesi evacuano migliaia di connazionali via mare, altri se ne vanno dal Vietnam per terra e per cielo. In tutto, dovrebbero essere già circa tremila ad essere scappati dalle violenze cominciate la scorsa settimana, nelle quali almeno due cittadini della Repubblica Popolare sono morti e oltre 100 sono rimasti feriti. Decine di imprese sono state incendiate o danneggiate. Secondo un sondaggio vietnamita, solo 14 delle 351 fabbriche danneggiate erano cinesi: 190 erano taiwanesi, 27 vietnamite, 19 sudcoreane. Nel frattempo si calcola che 111mila lavoratori siano rimasti senza lavoro e che circa 2mila cinesi siano stati evacuati. Ma è già tempo di bilanci e il Vietnam teme che gli investitori stranieri non si fidino più.

Dopo gli attacchi contro obiettivi cinesi, Pechino ha invitato i propri connazionali a rimandare i viaggi turistici in Vietnam e il ministero degli Esteri della Cina ha annunciato che sospenderà alcuni scambi bilaterali: “La Cina prenderà in considerazione ulteriori misure a seconda di come si sviluppa la situazione”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei”. Al momento, sembra che la polizia vietnamita abbia riportato la calma, la zona di fronte all’ambasciata cinese di Hanoi è stata liberata e circa 300 manifestanti sarebbero stati arrestati. All’inizio, i media di Hanoi avevano elogiato lo spirito “patriottico” dei manifestanti, salvo fare marcia indietro quando è iniziato il pogrom. 

I rapporti tra i due vicini formalmente comunisti si sono deteriorati in seguito alla decisione di Pechino, all’inizio di questo mese, di inviare una piattaforma petrolifera nelle acque contese delle isole Paracelse (“Xisha” per Pechino, “Hoang Sa” per Hanoi), nel Mar Cinese Meridionale. Si tratta di un arcipelago occupato dalla Cina nel 1974, dopo una battaglia in cui sconfisse la flotta sudvietnamita, che a quel tempo aveva per altro ben altre gatte da pelare (nel 1975 il Paese sarà unificato dopo la vittoria del Nord sul Sud e sugli Usa). L’occupazione cinese non è mai stata riconosciuta da Hanoi, che considera le Paracelse sue.

Negli ultimi giorni si è espressa anche l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (Asean), per bocca del proprio segretario generale, Le Luong Minh, che guarda caso è vietnamita. L’alto funzionario ha detto al Wall Street Journal che è necessario “tenere la Cina fuori dalle acque territoriali del Vietnam”, il che ha fatto infuriare Pechino che, per bocca del portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei, ha ammonito l’Asean a “restare neutrale e non intervenire nella controversia”. 

Da parte sua il Dragone ribadisce attraverso l’agenzia ufficiale Xinhua che “le operazioni compiute dalla China Oilfield Services Limited sono (…) completamente all’interno delle acque territoriali della Cina” e quindi legittime. “La volontà della Cina di salvaguardare la sua sovranità e l’integrità territoriale nel Mar Cinese Meridionale è e rimarrà incrollabile”, si aggiunge. Alcuni osservatori ritengono che in realtà il valore di quelle acque dal punto di vista delle risorse naturali sia piuttosto limitato e che quindi la scelta cinese di iniziare le operazioni di trivellazione sia soprattutto una mossa geopolitica per mettere i suoi contendenti del Mar Cinese Meridionale (oltre al Vietnam, ci sono anche le Filippine) di fronte al fatto compiuto. Una “fuga in avanti” che evidentemente non prevedeva le reazioni dei vietnamiti. 

Quanto al Vietnam, Hanoi ha ora soprattutto il problema di recuperare l’immagine di destinazione sicura per investire. Il Vietnam offre abbondante manodopera a basso costo e ha attirato 21,6 miliardi di dollari in investimenti diretti esteri l’anno scorso. Tuttavia, si tratta ora di ripristinare la fiducia degli imprenditori stranieri che già lamentano corruzione, burocrazia, mancanza di trasparenza giuridica.

 di Gabriele Battaglia

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