Roma sa continuamente stupire. Regalando occasioni quasi impreviste. Spalancando spazi che nonostante la loro nobile bellezza sono rimasti sconosciuti ai più. Riempiendo quegli spazi con opere che rappresentano la nostra arte. Qualche volta anche i nostri Paesaggi. Il tentativo di delinearne parti significative, di fotografarne parti destinate a mutare.

wilhjelm-mostraUn esempio di questo felice connubio tra luogo fisico, perlopiù ignoto, e rappresentazione del Paesaggio lo offre il Museo Hendrik Christian Andersen dove dal 1 aprile e fino al 2 giugno, è ospitata la mostra “Impressionisti Danesi in Abruzzo”. Il Museo, satellite della Galleria Nazionale d’arte moderna, uno di quei tanti spazi quasi inesplorati. Ai margini dei più grandi e utilizzati contenitori museali della città. Siamo al Flaminio, a due passi dal lungotevere Arnaldo da Brescia da un lato e del celebratissimo Explora, il museo dei bambini. Nella palazzina, progettata dallo stesso Andersen negli anni Venti, per diventare il suo studio-abitazione, rimangono le sue sculture. Al piano terra i due saloni-atelier che si aprono sull’angusto ingresso introducono in una storia sognata. Quella di realizzare un nuovo centro urbano, la “città mondiale”, nel quale le opere, anche di grandissime dimensioni, in marmo e in bronzo, dovevano fungere da trait d’union. “… una grande e nuova città internazionale ove i più grandi eventi della civiltà umana si concentrino radunati da ogni luogo del mondo per riversarle, coordinate e diretti, in torrenti apportatori di progresso nel mondo intero”, scriveva Andersen che aveva immaginato una città a scacchiera e di forma anulare. Rimasta irrealizzata.

Salendo le scale che portano al primo piano del Museo, si transita dal sogno di Andersen a quello di Kristian Zahrtmann, che dal 1883 fece di Civita D’Antino, piccolo centro montano della provincia de L’Aquila, la casa di centinaia di pittori nordici, attratti dalla bellezza dei paesaggi abruzzesi. Non solo. Decisi anche a tradurre quelle cartoline di un’Italia meno nota, senza ricorrere alle convenzioni della pittura accademica, sperimentando piuttosto quella  “di impressione”. Il successo di quel movimento pittorico, decretato dalla presenza alla prima Biennale di Venezia, nel 1895, di un dipinto proprio di Zahrtmann. La Processione di S. Lidano, patrono di Civita D’Antino. “L’Italia non è ovviamente nuova ad essere “scoperta” dai viaggiatori stranieri: a partire dal Cinquecento essa è una meta privilegiata nella formazione artistica”, scrive nel suo saggio Marco Nocca, uno dei curatori della Mostra insieme a Manfredo Ferrante e James Schwarten. I pittori che animano il paese abruzzese tanti. Johannes Wilhjelm, Sigurd Wandel, Carl Mathorne, Joakim Frederik Skovgaard, Peter Tom-Petersen, Johan Rohde, Carl Budtz-Moller, Gad Frederick Clement, i nomi di alcuni di essi. Ma ad emergere prepotentemente sono le montagne, i cieli, le vallate, gli scorci dell’abitato. Paesaggi “fermati” sulle tele. A risaltare le attività degli abitanti e i loro ritratti. Dell’Antinum romana nulla è riprodotto. Sembra quasi non esserci. Ad interessare i pittori la Natura. Sopra ogni altra cosa. Anche più degli uomini che sembrano elementi anch’essi del Paesaggio. Civita d’Antino il centro delle attenzioni. Ma spazio trova anche Scanno. L’Abruzzo quasi idilliaco della Mostra è sospeso tra la tela di Zahrtmann del 1867 e quelle di Budtz-Moller e Kroyer (?) del 1944.

civita-dantinoUn tempo “lungo” nel quale quelle terre sono state sconvolte dal sisma del gennaio 1913 e, in molte parti, da uno spopolamento progressivamente crescente. Bellezze primitive che rimangono così com’erano. Cristallizzate. Paesaggi quasi senza tempo. Anche per questo emergono le differenze con quelle aree, della stessa provincia de L’Aquila, nella quale la realizzazione di impianti eolici, ha stravolto morfologie. Cancellato elementi per secoli distintivi. Così da un lato rimane la quieta solitudine di Civita D’Antino. Dall’altro il rincorrersi delle alte pale nel territorio di Collarmele, al confine tra il Parco regionale naturale del Sirente-Velino e la piana del Fucino. Non diversamente da quelle nel territorio di Cocullo.

Forse osservare con gli occhi di altri i nostri territori può aiutarci ad averne maggiore rispetto. Anche per questo la mostra al Museo Hendrik Christian Andersen non è solo un evento culturale. Ma uno studiato tentativo di avviare un ragionamento inconsueto sul Paesaggio.

Articolo Precedente

Fotogiornalismo e reportage a Modena: da Che Guevara a Mandela

next
Articolo Successivo

Sogno sovietico, il fallimento: ‘Scompartimento N. 6’ di Rosa Liksom

next