Anno intenso per le ricorrenze musicali, il 1914. Una raccolta straordinaria di musicisti eccelsi sono nati in quell’anno. Ma uno in particolare ci interessa di ricordare: Rafael Kubelik. Ce ne dà l’occasione l’uscita di un corposo box sinfonico DG con le integrali di Beethoven, Schumann, Dvoràk e Mahler. Tutti cicli celebrati, a ragione, come tra i migliori mai registrati. Ma ci soffermeremo più in particolare al ‘sancta sanctorum’ di queste interpretazioni, che a nostro avviso è rappresentato dalle esecuzioni mahleriane del grande direttore boemo.

In realtà Kubelik è stato tra i maggiori interpreti della tradizione austrotedesca nel secondo Novecento, un direttore della massima sensibilità, che tendeva a scomparire dietro l’opera per lasciarla da sola di fronte all’ascoltatore. Figlio d’arte (il padre era il celebre violinista Jan) si trovò giovanissimo a dirigere all’opera di Brno prima dell’invasione nazista. Passata la guerra inaugurò il primo Festival internazionale di Praga nel 1945 ma fu poi costretto a fuggire all’estero per non rimanere nella Cecoslovacchia comunista dopo il ’48. Iniziò così la carriera internazionale di questo straordinario musicista. Prima Chicago, poi il Covent Garden fino all’approdo di Monaco, quando ‘sposò’ l’orchestra della radio bavarese che per molti anni divenne la ‘sua’ orchestra e con cui ha inciso l’integrale mahleriana. Poi il ritiro nei primi anni ottanta per una forma di artrite invalidante alla schiena. Vestì allora i panni del compositore per qualche anno finché, dissoltasi la Cortina di Ferro nel 1990 tornò nella sua amata Praga, liberata dal giogo sovietico, per dirigere una serie di concerti diventati giustamente storici.

Mahler, dicevamo. L’integrale di Kubelik è stata registrata tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, erano giù uscite quella newyorkese di Bernstein e quella olandese di Haitink, quella di Solti con la Chicago Symphony per Decca era in cantiere, insomma un gran daffare per le compagnie discografiche per afferrare il tempo del compositore boemo che era finalmente arrivato, come da profezia del medesimo. Molte erano le strade interpretative percorribili, se l’impronta personale era ciò che contava nelle esecuzioni di Bernstein, spesso sul labile limite del completamente arbitrario, Kubelik scelse l’aderenza al testo con una testarda voglia di non esagerare. Un desiderio di oggettività che era comunque nell’aria in quegli anni, e chi guardava con sospetto alla musica di Mahler come il luogo dei punti della volgarità in musica ebbe in Kubelik un alfiere della sobrietà, uno che aveva in mente soprattutto i rapporti strutturali e l’equilibrio tra le parti orchestrali. Una lettura ancora oggi affascinante (e sì che di acqua mahleriana ne è passata a fiumi sotto i ponti) per l’asciuttezza e il rigore.

Certo il rischio, consapevolmente corso dal direttore ceco, è di creare un diffuso grigiore, contrario al technicolor un po’ sbracato di tanti direttori mahleriani in vena di ‘approfondimenti’. Il meglio di sé questa integrale la dà nelle prime 4 sinfonie, dove l’asciuttezza del dettato orchestrale si è meravigliosamente sposato con una cifra fiabesca che si addice molto bene alle cosiddette sinfonie del Wunderhorn. Lo stile elegantissimo di Kubelik riesce comunque a dare una lettura ottima delle altre sinfonie, che restano di altissimo livello, ma non raggiungono le vette eccelse della Prima, della Terza e della Quarta. Quest’ultima si arricchisce della presenza, per il lied finale, della bravissima Elsie Morison, seconda moglie di Kubelik e cantante abilissima nel cesellare la difficile parte della Quarta. Difficile perché non è affatto pacifico il ‘mood’ che debba avere la cantante, alcune scelgono una via che rasenta il ridicolo, tentando di imitare la vocetta di una bimba e finiscono per bamboleggiare come delle vecchie soubrette da cabaret un po’ passato di cottura. Bernstein nella sua ultima registrazione preferì addirittura un puer cantor. La Morison adotta una linea mediana, senza forzature (del resto in linea con le scelte del direttore) porgendoci un cantato intimista nella migliore tradizione del Lied. 

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