Dopo aver guardato In grazia di Dio, l’ultimo film del regista Edoardo Winspeare, mi sono chiesta l’effetto che possa fare su chi non sia salentino come me. Vengo dal nord Salento, la storia invece è ambientata nel profondo sud, dove il dialetto è quasi un altro dialetto, anche se lo comprendo bene in tutte le sue differenti sfumature lessicali. Non ho avuto bisogno perciò dei sottotitoli, come non stento a credere verosimili la maggior parte dei piccoli affreschi che compongono questo mosaico di dolori, di lotte, di riscatti. Più volte nelle sue interviste ho sentito dire al regista che questo è un film sulla felicità. Io lo definirei anche e soprattutto un film sull’amore: per la propria terra e i suoi frutti, per i propri figli, per la propria dignità, e poi amore in tutte le sue sfumature, sensuale, tenero, giovane, maturo.

La prima parte è ansiogena, cruda, realista e in grado di attaccare immediatamente le corde più intime generando un senso di solidarietà con questa famiglia schiacciata da una concorrenza impossibile da sostenere, da una crisi galoppante e da un fantasma chiamato Equitalia.

Si delineano subito i personaggi e le loro caratteristiche, con una predominanza di donne protagoniste indiscusse di un universo in cui a brillare di luce propria sono loro, con attorno uomini satelliti. Donne del sud, dure, forti, combattive, schiette, volitive, ma anche dolci madri, figlie, nonne.

Accanto alla storia di una dramma economico e umano si sviluppa parallelo il tema di un amore senile, vincente, tenero, solido, concreto, quello tra Cosimo e Salvatrice. Epocale nel suo splendido candore il botta e risposta tra i due quando, nel rivelarsi finalmente i reciproci sentimenti, le parole d’amore classiche, sussurrate con pudore in un italiano inaspettato, vengono sostituite con le ‘cose serie’, come suggerisce l’uomo, cioè la proposta concreta di matrimonio, quindi di condivisione e di vita reale insieme.

Il loro rapporto, durante lo svolgersi degli eventi, sembra non curarsi delle tragedie del quotidiano, anzi si rafforza vivendo di vita propria, nascostamente sbeffeggiato e ‘schifato’ in ogni sua pur ingenua manifestazione dalla nipote di lei, Ina, simbolo di una gioventù dipinta impietosamente. Assente e distratta durante il sesso consumato un po’ alla leggera, preoccupata della lacca sulle unghie e arrampicata su improbabili tacchi di provincia con addosso maglie cinesi, coltiva il sogno di evadere da quella povertà contadina per diventare cittadina, benestante e nullafacente. Salvo redimersi alla notizia della gravidanza, una bomba in grado di scuotere l’intelligenza dormiente della ragazza che scopre così di avere una meta, di voler tenere e amare il figlio che verrà, di voler migliorare se stessa. Un riscatto che non sfiora minimamente il suo corrispondente maschile, uno dei tanti giovani di paese con il gel sui capelli, insensibile, maschilista e rassegnatamente ottuso, che reagisce picchiandola. Le figure adulte non ne escono meglio, spesso arrabattandosi ai limiti della legalità o assenti rispetto alle problematiche incipienti e alle loro possibili soluzioni, tranne un paio di eccezioni, Cosimo appunto, e il timido e delicato Stefano.

Il film si fregia di una scenografia naturale alla quale lo stesso Winspeare ci ha già abbondantemente abituato in passato, impreziosita dalla recitazione degli attori, quasi tutti non professionisti e con veri legami familiari tra loro (la protagonista Adele, interpretata da Celeste Casciaro, è la moglie del regista nella vita reale). Musica quasi assente per tutto il film a parte alcuni riusciti brani diegetici, essendo la scena sempre occupata dagli intensi e bellissimi dialoghi.

La chiusura tronca un po’ le aspettative, lasciando insoluto il futuro delle quattro donne che nell’ultima scena vediamo abbracciate e distese insieme, dolci e remissive, messe da parte le asprezze e i diverbi che avevano intessuto l’intera trama .

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