Eravamo in 130 il 10 e l’11 maggio a Reggio Emilia. Ci siamo incontrate tra le mura antiche dell’Ostello della Ghiara, avvocate, operatrici, e attiviste dei 73 centri antiviolenza D.i.Re, per riflettere sull’azione politica che da oltre vent’anni conduciamo contro la violenza alle donne. Abbiamo parlato delle difficoltà incontrate nel rapporto con le istituzioni che ci chiedono di svolgere dei servizi senza comprendere la nostra metodologia che ci impone di valorizzare le scelte delle donne e di rispettare la loro autodeterminazione. Quello che dà valore alle nostre azioni è l’analisi politica e culturale che facciamo del fenomeno. Oggi molti luoghi che si dichiarano centri antiviolenza affrontano il problema e si relazionano alle donne in modi distanti dai nostri. I criteri di definizione di un centro antiviolenza non possono esaurirsi nella mera previsione di professionalità, solitamente inquadrate in psicologhe, educatrici ecc. prescindendo dal ruolo culturale e politico.

La “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, conosciuta come Convenzione di Istanbul dal primo agosto sarà vincolante (è stato raggiunto il numero minimo di dieci Paesi che l’hanno ratificata e l’Italia lo ha fatto il 23 giugno scorso) e porterà innovazione nel nostro Paese. L’Italia e tutti gli Stati che l’hanno ratificato dovranno riconoscere, come ha sempre fatto il pensiero femminista, che la violenza contro le donne è l’espressione di rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi. Il fenomeno dovrà essere letto come una violazione dei diritti umani ed una grave forma di discriminazione e si dovrà perseguire l’obiettivo dell’eguaglianza tra donne e uomini.

La lettura del fenomeno della violenza nella Convenzione di Istanbul è coerente e vicina a quella dei centri antiviolenza che lo ritengono un prodotto della cultura contro cui non sono efficaci gli inasprimenti di pene detentive. Il problema va aggredito a più livelli.

La  logica emergenziale e securitaria che, fino ad oggi, è stata l’unica strategia istituzionale, dovrà essere accantonata e il Governo in qualche modo dovrà tenere in considerazione le sollecitazioni ed i suggerimenti portati dai centri D.i.Re. L’intervento penale, ad esempio, è uno degli strumenti a disposizione delle donne per fronteggiare situazioni di violenza, ma non è il solo e soprattutto non può esaurire le politiche di contrasto alla violenza. La cosiddetta legge sul femminicidio (119 del 2013) è stata l’ennesima risposta di carattere emergenziale che ha individuato nella norma penale lo strumento privilegiato di protezione delle vittime, percepite come soggetti deboli da tutelare. 

Ci sono altri interventi sui quali siamo critiche, ovvero quei “codici rosa” (non tutti e approfondirò l’argomento a breve) già adottati in alcuni pronto soccorso e ospedali, che intervengono sul presupposto della fragilità delle donne considerate deboli. Alcuni codici rosa hanno strutturato rigide procedure, ma le situazioni di maltrattamento vissute dalle donne seppur con caratteristiche comuni sono anche molto differenti tra loro e non si può dettare una risposta alle donne, peraltro sempre la stessa.

Questo tipo di intervento mette a rischio lo svelamento della violenza. Se ci sono donne che in alcune regioni chiamano i centri dichiarando la loro paura ad andare al pronto soccorso, qualcosa deve essere rivisto. Le donne non possono sentire alcun sostegno se provano diffidenza per azioni percepite come imposte o invasive. Peraltro se le istituzioni agiscono con queste modalità ripropongono alla donna il ruolo di soggetto passivo e controllato, lo stesso ruolo che viene imposto dagli uomini che le maltrattano. Qualunque aiuto non può prescindere dalla partecipazione e dalla condivisione delle donne a cui è rivolto.

Fortunatamente il Trattato di Istanbul vincolerà le istituzioni a non considerare le donne come soggetti deboli da tutelare. Il testo indica un approccio innovativo, punta sull’autodeterminazione delle donne e chiede di mettere in campo strategie e azioni strutturali ed integrate per affrontare il problema da un punto di vista culturale e politico.

La formazione e l’informazione saranno due altre questioni centrali per la prevenzione: la scuola, la stampa e la televsione, il web saranno chiamati ad assumersi l’impegno di cambiare il linguaggio e il pensiero sui ruoli e la rappresentazione di donne e di uomini con l’obiettivo di abbattere stereotipi e discriminazioni.

Coloro che, nelle istituzioni o nella società civile per lavoro o per attività politica, si troveranno ad affrontare il problema della violenza, dovranno fare la propria parte.

A questo punto la parola e la prossima mossa spetta al Governo, silente ormai da molti mesi su questa questione: che spazio intende dare alla applicazione della Convenzione di Istanbul?

Noi faremo la nostra parte.

@Nadiesdaa

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