Sono in tre,  moderatamente incazzati con il mondo, abbastanza inquieti con loro stessi, musicalmente ossessivi e compulsivi, ognuno a modo suo. Insieme formano The Afterglow, band dal nome abbastanza insolito. L’afterglow, per dirla con Borges, è quel “brillìo disperato e finale che arrugginisce la pianura, quando il sole ultimo si è sprofondato…”. Un bagliore residuo per una formazione che ha visto la luce a Torino, città generosa di movimenti metal ma orientata più verso l’elettronica e il cantautorato italiano: “Noi, però – racconta il cantante/bassista anglo-torinese Dave Timson, che abbiamo intervistato per saperne di più su di loro –  studiavamo il songwriting dei Beatles e gli arrangiamenti di George Martin”.
In pratica è come se vedeste un eschimese gestire con gran disinvoltura un bar a Tenerife. Si intitola ‘Pills, Parents & Pigs’ il loro nuovo disco, realizzato in collaborazione con il produttore inglese Steve Orchard e uscito per la Ethnoworld Records. Un album composto da 6 tracce, il più intimo e autobiografico della produzione: “Stiamo insieme da molti anni, eppure non finiamo mai di imparare nuove cose su noi stessi. PP&P racconta questo, storia dopo storia, che poi sono anche le storie di molte persone. Crediamo che in quasi ogni dramma umano ci siano stati farmaci, parenti e maiali con cui si è dovuto aver a che fare”. Stilisticamente il loro è un approccio musicale ricombinante, multiforme e cangiante, dove molteplici sono le allusioni e i grovigli sonori che travalicano i decenni e gli oceani. Nel disco, infatti, sono tanti i rimandi al sound delle band d’oltreoceano. Ma mantengono un proprio stile, che si delinea ed emerge come fosse una polaroid appena scattata. Una foto su cui è impresso, con le note, il loro personale paesaggio sonoro. 

Dave, quest’anno festeggiate i vostri primi 10 anni di carriera, dunque avete già un certo bagaglio di esperienze. C’è qualcosa a cui avete dovuto rinunciare per portare avanti questa attività?
La domanda è interessante, ce la fanno in molti. Se decidi di aprire un’azienda ti sobbarchi investimenti, rischi d’insuccesso, notti in bianco per fare progetti. Se vuoi diventare un campione di nuoto cominci a 6 anni rinunciando all’oratorio per andare in piscina, e così via. Noi crediamo che fare musica sia un lavoro, a patto che tu lo voglia davvero e che tu sia convinto che hai delle cose da dire alla gente. Il problema è che la musica è una trappola, funziona già bene da sola, è una cosa potentissima. La Musica ti regala molto in senso emotivo e chiunque decida di comunicare attraverso uno strumento musicale immediatamente si sente in diritto di essere ascoltato, di diventare potenzialmente ricco e noto senza lavorare. 
Peccato che se hai poco o quasi nulla da dire i tuoi interminabili assoli o le tue facce giuste da fare alla telecamera non interesseranno nessuno. E la maggior parte delle band viaggia su quell’onda emotiva, pertanto il vero punto chiave è che c’è più offerta che domanda, specialmente oggi, con Internet a farti da management, nel bene e nel male. Se aggiungiamo che l’Italia è un paese per nulla abituato a esportare musica rock al mondo, sostituire ogni momento ludico per registrare in studio, autofinanziarci i tour e non poterci permettere un ufficio stampa che si occupi di mainstream non sono che minimi disturbi all’interno del nostro percorso.

Quali sono state le vostre prime influenze musicali?
Regno Unito e USA ci hanno sempre affascinato. Abbiamo avuto modo di assorbire il meglio del pop e del rock dei ’60 e ’70 rinnovato in quello che è stato un decennio davvero strabiliante nei ’90, ma in realtà dentro c’è anche Classica, Morricone e Punk.

È un disco che sa molto di anni Novanta, come se anche voi siete attratti da quella tendenza o richiamo. Che rapporto avete con quel periodo?
Rapporto magnifico. Gli anni Novanta rappresentano per noi la migliore espressione del trentennio precedente ingrossata dalle produzioni orchestrali, dall’elettronica rinnovata e dal songwriting devastante. È il periodo in cui c’era la consapevolezza che tutto quello fatto dai Beatles, dai Pink Floyd, dagli Stones, da Bob Dylan, fosse possibile rifarlo imitando molto, ma mantenendo la massima autenticità.

Parliamo delle canzoni contenute nell’album.
Another potrebbe essere l’oscura storia di un vampiro moderno, una creatura speciale che deve integrarsi con le persone comuni, e circondarsi di menzogne per stare a galla e non essere messo in croce, in ogni senso. You’ve Been Great, è la realizzazione di un sentimento buono che una volta non vedevi, prima che un giorno tu te ne vada lasciami almeno cantare che sei stato grande, con me. Medicine, medicine e medicine, quando sarebbe semplicemente bastato aprire gli occhi, all’inizio di tutto, in Everything. Tommy è il ragazzo che corre via dalle sue paure e tra un pericolo e l’altro scopre infine di fuggire innanzitutto da se stesso. X-Song, i nemici mi temono, sono forte, posso comandare il mondo, eppure mi sento vuoto. Forse non è quella la felicità. Forse. I Still Go, un inno al non fermarsi mai, ‘Vado ancora avanti, ma non senza che tu possa prenderti cura di me’.

 

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