Se le decisioni di politica economica dell’area euro sono sbagliate o insufficienti, è anche perché sono inadeguate le istituzioni all’interno delle quali vengono prese. Troppo peso agli Stati e troppo poco agli organismi europei. Ricette per aumentare la democrazia e l’efficienza.

09.05.14, , lavoce.info

La crisi e l’euro

Nel dibattito sull’euro si fa spesso un gran polpettone, mescolando argomenti diversi. Una cosa per esempio è chiedersi se conveniva all’Europa, o anche solo all’Italia, imbarcarsi nel 1992 nel processo che poi ha condotto all’adozione della moneta unica nel 1999, vista l’eterogeneità e le differenze, culturali non meno che economiche, che esistono tra i diversi paesi europei. Un’altra cosa è chiedersi nel 2014 se conviene uscire dall’euro, unilateralmente o perfino collettivamente, visto che costi e benefici nei due casi sono estremamente diversi. Allo stesso modo, si può benissimo ancora credere alla validità politica e economica del progetto europeo della valuta comune e avere invece un giudizio pesantemente negativo sulla conduzione della politica economica dell’area. Del resto, sarebbe difficile esprimere un giudizio diverso. A sei anni dal crollo di Lehman Brothers, l’area euro è ancora attanagliata da problemi di bassa crescita, alta disoccupazione, rischi di deflazione, crollo degli investimenti, che non risparmiano nemmeno i paesi più forti.

Il confronto con gli Stati Uniti, che pure erano entrati nella crisi in condizioni peggiori degli europei, è impietoso. Perfino per quello che riguarda la finanza pubblica, la situazione appare più stabile negli Stati Uniti, nonostante l’accento molto più forte messo in Europa sulla necessità di un suo riequilibrio. Ed è proprio l’incapacità dei paesi europei di rispondere in modo adeguato alla crisi, e l’abitudine dei politici nazionali di addossare all’Europa anche colpe non sue, che gonfia le vele dei vari antieuropeismi nazionali.

Perché si insiste su una politica economica sub-ottimale? Una risposta può essere semplicemente la bassa qualità dei leader europei e nazionali o i furori teutonici di Angela Merkel. Ma è una risposta parziale, perché i leader non decidono in astratto, ma all’interno di istituzioni che determinano in gran parte il risultato. Dunque, se le decisioni sono sbagliate o insufficienti, c’è il sospetto che siano quelle istituzioni a essere sbagliate o insufficienti. E uno sguardo all’assetto istituzionale dell’Unione Europea suggerisce che il sospetto sia fortemente fondato.

La governance dell’area euro

Il compromesso sancito dal Trattato di Lisbona nel 2009, dopo il fallimento del progetto costituzionale europeo, ha istituzionalizzato un duplice metodo di governance dell’Unione Europea. C’è un metodo sovra-nazionale, basato sul circuito Commissione-Parlamento-Consiglio e sottoposto al controllo della Corte di giustizia europea, che si applica in sostanza alle materie condivise e collegate al mercato unico. E c’è un metodo intergovernativo, basato sul Consiglio europeo, istituzionalizzato appunto dal Trattato, che si occupa invece delle politiche economiche e finanziarie che rilevano per l’Unione, così come di difesa e politica estera, cioè dell’insieme di quelle materie su cui c’è necessità di coordinamento a livello europeo, ma che sono anche percepite come particolarmente sensibili per la sovranità nazionale. Qui le decisioni vengono prese sulla base della collaborazione volontaria tra i paesi e non c’è spazio per altre istituzioni comunitarie, se non per la Commissione in veste di supporto tecnico.

Le politiche economiche

Questo significa che tutte le decisioni rilevanti in merito alla governance economica dell’Unione Europea sono prese dal Consiglio europeo, o per i paesi euro, dall’Euro Summit, cioè da assemblee di leader politici nazionali sottoposti solo al controllo delle proprie opinioni pubbliche. E questo nonostante che la valuta unica sia per definizione un’istituzione sovranazionale. Nella crisi dell’euro, esplosa nel 2010 con il caso greco, tutte le decisioni rilevanti sono state prese da queste assemblee, spesso senza neanche informare le altre istituzioni europee o informandole solo a decisioni prese.
Il problema è che assemblee di questo tipo fanno fatica a prendere decisioni corrette su temi collettivi, soprattutto in tempi di crisi. In primo luogo, c’è un problema di timing. Le contrattazioni tra leader nazionali sono necessariamente lunghe e laboriose, spesso con un occhio alle elezioni locali prossime e venture, cosicché le decisioni vengono prese troppo tardi, quando c’è la percezione che non se ne possa più fare a meno. Anche se manca una prova controfattuale, è probabile che non avremmo avuto la crisi dell’euro, se le stesse decisioni prese per la Grecia dal Consiglio europeo nel 2012, fossero state assunte due anni prima.
Il secondo problema è la correttezza delle decisioni. Nei dibattiti intergovernativi, in assenza di regole decisionali ben definite, inevitabilmente tendono a prevalere le opinioni dei paesi più forti. Nel contesto europeo, questo ha fatto sì che gli interessi e la filosofia economica della Germania si siano imposti nel determinare l’orientamento della politica economica dell’area. Così, la politica economica è risultata eccessivamente recessiva, tutta centrata sul risanamento immediato e simultaneo delle finanze pubbliche nei diversi paesi, ignorandone gli effetti di spill-over, mentre invece è stata poco attenta, per esempio, ai problemi del risanamento del settore bancario, che si cominciano ad affrontare solo adesso. È esattamente l’opposto di quello che hanno fatto gli Stati Uniti nell’affrontare la crisi.

Legittimità e trasparenza

Esiste, poi, un problema di legittimità democratica. Le opinioni pubbliche nazionali risentono l’intervento di governi di altri paesi, che non percepiscono come legittimati a prendere decisioni nei loro confronti, visto che non hanno contribuito a eleggerli. Nel contesto europeo, il problema ha generato una distorsione ulteriore. Per evitare che fosse direttamente il paese A a dire cosa fare al paese B, il compito del controllo e dell’attuazione delle politiche decise nel Consiglio europeo è stato assegnato alla Commissione. Con due risultati, entrambi negativi. Il primo è una perdita di legittimità anche della Commissione di fronte ai cittadini europei, in quanto si tratta ancora di un altro organismo non legittimato dal voto. Il secondo è che poiché i paesi stessi non si fidano della Commissione, il suo ruolo è stato minuziosamente definito fin nei dettagli dei vari trattati intergovernativi o sovranazionali che si sono susseguiti, onde ridurne al minimo il grado di discrezionalità. Ma così si è prodotto un ginepraio di regole fiscali totalmente incomprensibile per i cittadini, e in molti casi anche per gli stessi governi che dovrebbero applicarle.

Come ne usciamo

Se la diagnosi è corretta, è evidente che una soluzione strutturale al problema può essere trovata solo modificando i meccanismi decisionali europei, cercando di renderli più efficienti e democraticamente legittimati. Ci sono varie opzioni. In primo luogo, è ovviamente necessario che, quando si prendono decisioni che riguardano l’Europa, ci sia qualcuno al tavolo legittimato a parlare per conto di una constituency europea e non solo delle varie constituencies nazionali.
Un presidente del Consiglio europeo esiste già, ma è una figura debole (neanche vota), nominata dagli stessi governi. Invece, un presidente eletto direttamente dai cittadini europei, sulla base di una chiara agenda politica e magari con un sistema di grandi elettori come quello statunitense per tutelare gli Stati più piccoli, avrebbe tutta la legittimità per confrontarsi alla pari con i leader nazionali e portare un punto di vista europeo nel dibattito. La dinamica politica nel Consiglio sarebbe completamente diversa.

Un’altra opzione è che sia il presidente della Commissione (magari fondendone il ruolo con quello dell’Unione) a essere direttamente eletto dai cittadini, anche se questo potrebbe confliggere con il ruolo “tecnico” della Commissione come guardiano dei Trattati.

A ogni modo, nella situazione attuale, va sicuramente apprezzata la decisione dei partiti europei di coalizzarsi nell’indicare un candidato comune alla presidenza della Commissione, piegando il braccio al Consiglio europeo. Non sarà molto, ma certo la maggiore legittimità del presidente rafforzerà il suo ruolo nelle contrattazioni future.
Ma un presidente eletto direttamente di per sé non è sufficiente. È necessario che cambino anche le funzioni e i rapporti di potere tra le varie istituzioni europee.

In particolare, è necessario che nelle decisioni che riguardano l’Europa, anche nell’area economica, sia coinvolta direttamente l’unica istituzione che è legittimata a rappresentarne i cittadini, cioè il Parlamento europeo. Anche qui sono possibili varie opzioni. In quella più squisitamente federale, il ruolo degli Stati nazionali nelle funzioni condivise è limitato alla loro partecipazione alla seconda camera legislativa, come il Senato americano o il Bundesrat tedesco, mentre il potere esecutivo è assegnato al presidente o al governo parlamentare, che però richiede solo la fiducia della prima camera. È quello che avviene in Europa per le politiche delegate all’Unione Europea, dove gli Stati si esprimono attraverso il Consiglio, i cittadini attraverso il Parlamento europeo e dove la Commissione ha il potere di iniziativa legislativa. La soluzione proposta dai federalisti europei è dunque quella di estendere il modello anche a tutte le altre funzioni, comprese quelle attinenti all’area economica, rendendo la Commissione un vero e proprio governo dell’Unione e legandolo a un rapporto fiduciario con il Parlamento europeo.

Se questa alternativa fosse irrealistica o troppo ambiziosa, o perché non sostenuta dai cittadini o perché gli Stati europei su funzioni percepite come cruciali per la loro sovranità intendono mantenere un ruolo esecutivo diretto – in altri termini se il Consiglio europeo è lì per restare -, è comunque necessario che il Parlamento europeo abbia una voce sulle decisioni che questo organismo prende. Per esempio, si potrebbe estendere il modello della co-decisione anche a queste politiche, con qualche soluzione tecnica per la legislazione d’urgenza e con un ruolo riconosciuto alla Corte di giustizia europea su quanto fatto dal Consiglio europeo. Il Parlamento dovrebbe anche avere potere di iniziativa legislativa su queste materie, non subendo dunque solo quanto deciso dal Consiglio europeo. E dovrebbe avere maggior autonomia sul bilancio europeo, anche a parità di dimensioni, per poter credibilmente proporre agende economiche alternative. Soprattutto, il Parlamento europeo dovrebbe avere la possibilità di bloccare la stipula di trattati intergovernativi al di fuori dei Trattati dell’Unione, come invece hanno fatto i paesi durante la crisi dell’euro, appunto per evitare la tutela degli altri organismi europei. A questo proposito, si osservi che quando il Parlamento europeo è stato coinvolto negli strumenti di gestione della crisi dell’euro, i vari “packs” e il meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie, il risultato è stato migliorativo rispetto a quanto proposto dal Consiglio europeo, pur se non ancora ottimale.

E’ un’ipotesi realista?

Fantapolitica? L’idea che una maggiore integrazione politica sia necessaria per mettere l’area valutaria comune su una base più solida e più democratica è ampiamente diffusa tra le élite e i leader dei paesi dell’euro, anche se poi bisogna capire che cosa ciascuno intenda. Il documento dei quattro presidenti, presentato nell’ottobre del 2012, proponeva già una road map per passare prima all’unione bancaria, poi a quella economica e fiscale e infine all’unione politica. Il processo si è poi bloccato, anche perché per i leader nazionali muoversi in questo campo è politicamente costoso, e l’apparente stabilizzazione dell’area dell’euro riduce la spinta ad agire, nella speranza che la ripresa economica di per sé risolva i problemi. Ma è un’illusione.
Il sistema decisionale dell’Unione per le politiche economiche rimane comunque disfunzionale e privo di sufficiente legittimità. Ed è dubbio che la ripresa economica risulti sufficiente a rispondere alle richieste dei cittadini senza un ruolo più attivo da parte delle istituzioni europee nella politica economica, che a sua volta è difficile da ottenere senza una maggiore integrazione politica.

Anche l’argomento che le proposte precedenti non si possono portare avanti perché richiederebbero una riscrittura dei Trattati non ha molto senso nel contesto presente. La riscrittura è già in agenda, perché il referendum inglese costringerà comunque a trovare un nuovo accordo istituzionale tra i paesi dell’euro, che devono necessariamente integrarsi maggiormente se vogliono tenere in piedi l’area monetaria comune, e gli altri, che sono solo interessati al mantenimento di un’area di libero scambio commerciale.

La presidenza europea offre all’Italia un’occasione importante per promuovere quest’agenda.

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