La Squadra Mobile di Pescara ha arrestato sei persone. Altri quattro i denunciati. Persone giovanissime: il più piccolo ha 15 anni, il più vecchio 24. Tutti frequentavano il cuore pulsante della vita notturna pescarese, Corso Manthoné, lì dove nacquero Ennio Flaiano e Gabriele D’Annunzio, e lì dove oggi preme la più alta concentrazione di locali notturni d’Italia. Ristoranti, disco-bar, posti alternativi. E un numero sempre crescente di cicchetterie, con tanti gestori che oggi vivono soprattutto grazie allo smercio in quantità colossali di short-drink. Venduti a un euro, a volte anche soltanto a cinquanta centesimi. La crisi morde, e il prezzo degli alcolici, quelli più comuni e dozzinali, forzatamente, scende.

Nell’ultimo sabato di aprile, il cosiddetto centro storico di Pescara è stato scenario di tre incredibili aggressioni.

Un ragazzo di 19 anni, colpevole di nulla, viene improvvisamente, kafkianamente circondato e massacrato di botte da un manipolo di giovani. Calci e pugni a rotta di collo. Il 19enne subisce la rottura di una mandibola. Prognosi di 30 giorni e ricovero per un intervento maxillo-facciale.

Nella stessa notte un 24enne, sempre senza motivo apparente, sferra un pugno violentissimo a un suo coetaneo. Subito dopo vengono aggrediti altri suoi amici. Frattura alla testa e prognosi riservata per il primo malcapitato. Avrebbe potuto anche lasciarci le penne. Si scopre che l’aggressore era recidivo. Una volta aveva colpito, con un pugno in faccia, una ragazza. Un autentico gentleman della nostra epoca.

Sempre nella medesima notte da tregenda, due trentenni sono colpiti ripetutamente al volto e alla gola da un diciassettenne. Fratture al volto – l’epilogo sanitario di un giretto ordinario – giudicate guaribili in trenta giorni.

In tutti questi casi manca il benché minimo movente. La violenza è sempre ignobile, che sia innescata da motivazioni politiche, etniche, religiose o calcistiche. Ma qui siamo proprio dalle parti dell’assurdo.

O meglio, un movente, e che movente, ci sarebbe: si chiama knock-out game, ed è una moda virale importata dagli Stati Uniti. Funziona così: l’aggressore pesca a caso la sua vittima nella straordinaria gamma umana dei presenti in un dato luogo pubblico, e la colpisce con un solo violentissimo pugno in faccia. Per poi allontanarsi in tutta fretta e correre al pc di casa dove postare, sui social e su Youtube, la propria impresa, il proprio selfie di guerra in tempi di pace.

Ne “I sotterranei del Vaticano”, di André Gide, uscito nel 1914, il giovane avventuriero Lafcadio, dedito al narcisismo e al culto smodato di sé, si rendeva artefice di un delitto immotivato, perpetrato per il mero piacere dell’azione assassina. Del misfatto “senza scopo, l’atto cattivo, il delitto non imputabile, inafferrabile”. L’estetica e la mistica dell’atto gratuito. Il Novecento si apriva, letterariamente, e non solo, anche così.

campioni del knock-out all’italiana– sopracciglia sottili, muscoli prominenti, iPhone argentato, cicchetti e short a profusione, nugoli di foto in posa gang su Facebook, magari con pistola scacciacani d’ordinanza– non avranno letto Gide; ma inconsciamente ne perpetuano, un secolo esatto dopo, copia&incolla acritico dagli States, le stesse gesta, ora di massa, di Lafcadio.

Il giovane senza qualità, che oggi si fa giovanissimo branco; e quasi uccide, per sentirsi globale e contemporaneo e connesso. Potenza perversa, assurda e vuota della vana “gloria”, del “game” a squadre online.

 

 

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