John Banville ha una scrittura ipnotica e “sensuale”. Maestro nella creazione di atmosfere nebbiose che però risplendono come domande da cui dipende la vita stessa, rende piuttosto bizzarra la figura del narratore onnisciente ottocentesco. So che è una citazione piuttosto usuale su Banville, ma la cito lo stesso, la sua prima moglie diceva di lui che mentre scriveva sembrava «un assassino che ritorna da un omicidio particolarmente sanguinoso”. E anche ai lettori spesso fa questa impressione: i suoi personaggi ricostruiscono, attraverso un uso geniale del punto di vista, qualche brandello del passato che contiene una spiegazione o una possibilità di sé: l’atto mancato, l’amore imprevisto, la fine di un momento, la morte non risolta che risuona ancora. Le movenze sono quelle della crime story, e Banville pubblica con lo pseudonimo di Benjamin Blake proprio crime story, e il mood è spesso quello dell’umorismo nero. Ma ciò che più sorprende, soprattutto a chi lo legge in inglese, è la qualità della prosa, dove ogni dettaglio di colore, di immagini, di atmosfera riesce a trovare il modo di attaccarsi alla pelle del lettore. In poco più di duecento pagine si entra nella coscienza dei protagonisti con tutti gli specchi e i sospetti che queste coscienze portano con sé, con una verità frastagliata e infine l’orgogliosa fragilità del tentativo di ricostruirsi. Chi meglio di Banville per parlare del punto di vista, una delle questione più importanti della costruzione di un romanzo?


Una delle più frequenti domande che mi fanno nei corsi di scrittura è: ma questa storia la scrivo in prima persona o terza persona. Sembra una questione legata al vicino e al lontano. Allo scoprirsi con la prima persona o al distanziarsi con la terza. I suoi romanzi spesso sono raccontati in prima persona. Perché sceglie la prima? Il punto di vista è sempre stato un problema per i romanzieri. “Cosa importa chi parla?” chiede spazientito uno dei narratori di Beckett, ma è una domanda a cui non è davvero facile rispondere. 
Scrivo in prima persona perché mi sembra il modo più naturale. Quello che io posso vedere è la parte esteriore del mondo, e naturalmente delle cose posso conoscere solo la superficie, comprese le persone; d’altra parte, posso conoscere me stesso, semmai, solo da ciò che avviene nella mia testa.

Infatti nei suoi personaggi la storia avviene interamente all’interno della coscienza. La perdita di un caro diventa spesso il motore di una conoscenza del mondo attraverso un uso acuto della memoria, che diventa un gioco di specchi in cui il personaggio si riscopre in una complessità imprevista. È sempre necessaria le perdita per innescare questo meccanismo? Faccio questa domanda anche per avere una risposta al quesito classico (e un po’ banale) di uno scrittore in erba: per scrivere serve soffrire?
No, anzi. L’innamoramento ha lo stesso effetto. Tuttavia, devo contestare la nozione secondo la quale i miei personaggi raggiungono una conoscenza più approfondita del mondo attraverso il dolore, l’amore o l’arte. Devo aggiungere che ho il sospetto che già all’età di quindici anni, o giù di lì, sappiamo del mondo più di quanto non riusciremo mai a conoscere in seguito. Il resto è solo rifinitura della conoscenza, e illusione. Ahimè.

Appunto: leggendo i suoi romanzi si ha l’impressione che, nella costruzione della costellazione esistenziale dei suoi personaggi, è fondamentale l’infanzia o la prima adolescenza vista sotto la luce di un episodio che ne contiene in un certo senso l’essenza…
Il passato, o forse dovrei dire “Il passato”, mi affascina. Quand’è che il passato diventa tale? Ieri fa parte del passato? E la settimana scorsa, il mese scorso, o addirittura lo scorso anno? Si attraversa un indefinito confine liminale e ciò che era meramente e semplicemente il presente mondano diventa un luogo luminoso, e numinoso, dove chissà perché ci sembra di esistere in modo più autentico, più vivido e intenso. Per me questo è un mistero grandissimo, che mi affascina, uno di quei misteri che esploro in continuazione.

Punto di vista e memoria. Il punto di vista del suo protagonista viene messo in scacco dalla memoria. La memoria gli rivela tanto quanto gli nasconde. Spesso si chiede ma questo è successo veramente? È come se la memoria fabbricasse ricordi, o li completasse. È con questo gioco di chiaroscuro in cui la memoria agisce nella fabbricazione di ricordi che scopriamo o ci avviciniamo a capire chi siamo?

Credo che più che ricordare, noi immaginiamo. Il che significa, in un certo senso, che il passato lo inventiamo, lo ricreiamo dai frammenti a nostra disposizione, in modo simile a quello del romanziere che costruisce un romanzo. E ancora, non sono sicuro che scopriremo mai “chi siamo”, sebbene il nostro sforzo costante in questa continua ricerca renda la vita infinitamente affascinante – infinitamente, cioè, fino a quando non finisce.

Una domanda più tecnica. Ancora una volta il punto di vista dei suoi protagonisti, non viene raccontato attraverso una storia, ma in modo rapsodico, per momenti e per atmosfere (di cui lei è un vero virtuoso). È un essere mimetici con il reale procedere della memoria, o è anche un modo narrativo per costruire l’attenzione del lettore?
Questa è una domanda interessante. Una domanda a cui non sono sicuro di riuscire a rispondere in modo chiaro o adeguato. Io presento il mondo dal punto di vista del narratore così come – spero – vedo il mondo dal mio personale punto di vista. Ritengo che la nostra vita sia rapsodica – un termine bellissimo – specialmente quando ci sentiamo vivi con maggiore intensità, vivi in noi stessi e al mondo e all’io. Tutto ciò che riusciamo ad avere sono apparizioni fugaci, ma quelle apparizioni brillano.

Altra domanda classica degli scrittori poco esperti. Quanto il punto di vista dei suoi protagonisti è debitore del suo punto di vista? 
Totalmente. Sono l’unica persona di cui posso conoscere qualsiasi cosa dall’interno. Perciò tutti i miei personaggi sono una qualche versione di me stesso.

Il Fatto Quotidiano, Lunedì 30 dicembre 2013

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