Uno dei libri più intensi, drammatici, neri e imbevuti di assoluto di sempre. Che proprio quest’anno compie 150 di vita, chiamiamola così: la sua prima edizione uscì, infatti, nel 1864. Parliamo delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, il primo monologo interiore, il primo flusso di coscienza che la letteratura ricordi. Ben prima di Svevo e Joyce e Musil e Döblin e Sartre o, in tempi più recenti, di Houellebecq col suo Estensione del dominio della lotta. Questo libro dovette sembrare una musica terribile e inaudita ai suoi contemporanei. Farina dei marziani. Le Memorie dal sottosuolo trascendevano e trascendono ancora l’arte e la letteratura; occupano il posto che spetta alle grandi rivelazioni mistiche dell’umanità. Del repertorio dell’immenso scrittore russo, costituiscono l’opera più sui generis e crudele. Di una modernità sconvolgente. Uno di quei volumi da portarsi nella fatidica isola deserta. Lì dove il sole splende bruciando. Un volume, certo, non per tutti. Ne andrebbe severamente sconsigliata la lettura ai deboli di spirito; ne andrebbe vivamente consigliata la lettura, tuttavia, agli arroganti, ai vanagloriosi, ai potenti di turno. “Avere coscienza di troppe cose è una malattia”. Perché può modificare la vita in una direzione o in un’altra. “La magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventare nulla, e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”. “Non metterei le Memorie in mano di chi non è sufficientemente forte per reggere alla loro tensione, o sufficientemente innocente per non restarne avvelenato – scrisse Mirskij nella sua Storia della letteratura russa -. Sono un forte veleno, che è meglio per molti non toccare”.

Oggi poeti e narratori hanno molta meno presa nell’immaginario collettivo, certo; e sembra distante un millennio, non 240 anni, lo stillicidio di suicidi in carne e ossa per amor cortese incompreso che seguì l’uscita de “I Dolori del giovane Werther” di Goethe. Oggi sono ben altri i canali sui cui corre il minimo comun immaginario, e su cui scorrono i flussi di coscienza, spesso altrettanto terribili e indicibili, quelli altrui. Oggi il sottosuolo corre su social network, talent e tutorial show?

“Che cosa è meglio: una volgare felicità o un’elevata sofferenza?”, proseguiva Dostoevskij nelle sue Memorie del sottosuolo.

La condizione dell’uomo solo, ripiegato su se stesso, prigioniero del suo labirinto, e quindi tendente all’astio, alla rabbia, al livore nei confronti del pensiero e del provarci altrui. “La migliore definizione dell’uomo è questa: animale bipede e ingrato”. La vita fremente che preme, magnifica e oscena. Il richiamo viscerale del tiepido grembo del sottosuolo. Col suo inferno calmo.

Vivere fantasticando vendette, resurrezioni, rivoluzioni che tanto non si troverà mai la forza di realizzare.

“Già da un pezzo vivo così, da vent’anni. Ora ne ho quaranta. Prima ero impiegato, ma adesso non lo sono più. Ero un impiegato cattivo. Ero sgarbato e ci provavo piacere. Quando davanti al tavolo dove stavo seduto io capitavano postulanti in cerca di informazioni, io digrignavo i denti e provavo una voluttà senza fondo se mi riusciva di tormentare qualcuno”.

Ma se il sonno della ragione genera mostri, quello della passione, peggio. “Siamo arrivati al punto da considerare la vita vera quasi una fatica. E perché ci agitiamo tanto, perché facciamo gli stravaganti?” scrisse Fëdor Dostoevskij. Centocinquanta  anni dopo, mutatis mutandis, questi grandi interrogativi ci assediano ancora. Potenza dei Classici.

Facebook ci domanda, “A cosa stai pensando?”, oppure “Come ti senti oggi?”. E noi ci sforziamo di rispondere, in sintesi, con la faccina giusta.

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