Compro biologico e mi sento meglio. Sono convinta, inconsciamente, che il prodotto che andrò a mangiare non solo sia più sano, più controllato, più sicuro, magari più buono, ma sia anche locale. Ovvero che rispetti quella filiera corta che garantisce la sua genuinità e freschezza. E che risparmia in termini di trasporto del prodotto, con costi di emissioni di Co2 ridotti. Del resto biologico fa rima con filiera corta, no? No. Biologico significa biologico, non significa kilometro zero. Ed ecco che, sorpresa, spesso i prodotti biologici che compriamo in Italia sono stati prodotti.. all’estero.

Basta una piccola ricerca nei siti delle case produttrici per scoprire, ad esempio, che quella buonissima marmellata biologica è prodotta con frutta proveniente dalla Bulgaria. Lo stesso dicasi per l’omologa squisita crema di nocciole… biologiche sì, ma non proprio piemontesi. Provengono dalla provincia di Montana, ai confini con la Serbia.

Per non parlare del latte a lunga conservazione: bio sì, ma munto da mucche allevate in Slovenia, Germania, Francia. Cosi’ come lo Yogurt: spesso anche quello biologico “naturale al 100%”, ma – basta leggere dal sito – “a partire da latte fresco italiano”, tradotto: solo una percentuale di latte è delle nostre mucche.

Recentemente la Coop ha messo a disposizione un’ app per i nostri smartphone, si chiama Coop Origini e come dice il nome serve proprio a determinare il luogo di provenienza degli ingredienti che compongono i prodotti Coop. Compro spesso la pizza margherita surgelata biologica, con farina di Kamut. Invitante e più leggera, una cena veloce che mette insieme gusto e sapori “verdi”. Non ho resistito ad utilizzare la app appena scaricata per sapere da dove venissero questi prodotti genuini e con sorpresa ho scoperto che quella farina proviene da Stati Uniti e Canada, dove la coltivazione del Kamut va per la maggiore.

Ma perché utilizzare farine bio tanto lontane? La spiegazione non è solo economica. Certo, coltivare in Bulgaria o allevare in Slovenia costa molto meno a livello di manodopera e di tassazione. Ma c’è di più. I terreni da coltivazioni biologiche, infatti, devono avere caratteristiche particolari; ovvero devono essere posizionate in zone lontane da sorgenti d’inquinamento (traffico stradale, industrie, discariche ecc…), ma anche da terreni coltivati con fertilizzanti e pesticida, per evitare eventuali contaminazioni.

Inoltre, caratteristica non facile da trovare, devono essere incolti da lungo tempo per poter ottenere le certificazioni di prodotto biologico. Con queste regole, in Italia diventa quindi molto difficile poter individuare aree di coltivazione biologica.

Ed ecco quindi che ‘l’erba del vicino diventa più verde”, anche perché non c’e’ nulla di irregolare. L’importazione di prodotti da agricoltura biologica può avvenire solo con Paesi terzi autorizzati dalla Commissione Ue e che figurano nel regolamento Cee, oppure da Paesi terzi ai quali viene rilasciata una specifica autorizzazione all’importazione.

Insomma, ammesso e non concesso che i controlli delle autorità tedesche, bulgare, rumene &co siano equivalenti a quelli che avvengono nel nostro Paese, la questione è di… etichetta. Il problema come sempre è legato alla chiarezza.

Comprereste ugualmente un prodotto biologico se fosse ben specificato che la materia prima proviene dalla Moldavia? Oppure optereste per il suo vicino di scaffale, magari non bio ma davvero a kilometro zero?

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