“Sono assolutamente innocente. Ammetto di essere stato uno sprovveduto, e di aver inavvertitamente violato le leggi locali. Ma non sono un pedofilo e a quei bambini, come ho fatto in tanti altri casi ovunque io abbia vissuto o viaggiato, ho solo voluto regalare un po’ del mio tempo facendoli divertire. Spero che questo mostruoso equivoco finisca presto perché non ce la faccio più. Questa detenzione, profondamente ingiusta, comincia ad essere davvero pesante”. Così Daniele Bosio, ambasciatore italiano in Turkmenistan, attualmente sospeso dal servizio perché detenuto nelle Filippine. Le accuse sono gravi e infamanti: abuso e traffico di minori. Se si andrà a processo rischia sino a 5 anni per la prima accusa e l’ergastolo per la seconda.

Bosio è detenuto dallo scorso 5 aprile presso la stazione di polizia di Binyan, una cinquantina di chilometri da Manila. Divide la cella, uno stanzone di circa 30 metri quadri, con altre 80 persone. “Finora mi hanno trattato bene – ci dice – con rispetto. In cambio sto cercando di rendermi utile, ad alcuni compagni di cella insegno l’italiano ad altri l’inglese….”. Il 30 aprile ci dovrebbe essere l’udienza preliminare del Gip. “Può succedere di tutto – spiega Andrea, il fratello che assieme ad un amico di famiglia è qui sin dai primi giorni e che oggi verrà raggiunto dagli anziani genitori – può essere prosciolto, come noi tutti ci aspettiamo, rinviato a giudizio con o senza cauzione, o subire un nuovo rinvio. Un’ipotesi che ci terrorizza, perché comporterebbe il suo trasferimento a Manila, in condizioni detentive ben peggiori di quelle, pur difficili, alle quali è stato sinora sottoposto”.

Come ho già dichiarato nel mio blog personale, conosco da molti anni l’ambasciatore Bosio e sono intimamente convinto che sia innocente. Nel senso che pur avendo violato la legge filippina – che è giustamente durissima viste le proporzioni dello sfruttamento e della violenza che subiscono i minori – non riesco ad immaginarlo nell’atto di far del male. A chiunque, figuriamoci a dei bambini. Ma questa è una mia personalissima opinione. Penso sia corretto e doveroso dichiararlo, e spero che questa mia “sensazione” trovi presto conferma a livello giudiziario, ma non è certo il motivo per il quale, dopo essere stato a Manila e aver condotto, assieme al collega del Sole 24 Ore Stefano Carrer una approfondita inchiesta sulla vicenda, incontrando tutte le parti in causa (autorità diplomatiche locali, poliziotti che hanno effettuato l’arresto, legali, accusatrici e lo stesso ambasciatore detenuto) ho deciso di riprendere l’argomento.

Il vero motivo è l’imbarazzo, per non dire l’indignazione, che si prova di fronte al totale abbandono in cui può finire per trovarsi un cittadino italiano – e parliamo di un ambasciatore – in una situazione di emergenza, all’estero. E questo aldilà dei reati contestati e del loro successivo accetamento. Nel leggere tutti i verbali (i primi interrogatori dei bambini, le dichiarazioni rilasciate da Bosio e le testimonianze delle accusatrici) che abbiamo avuto modo di consultare, due cose saltano agli occhi.

Primo: che da nessuna parte risulta un’accusa precisa, o anche il semplice sospetto di violenza o di “abuso” a sfondo sessuale. I bambini, sentiti separatamente, dichiarano tutti la stessa cosa (leggi il verbale tradotto), ricostruendo i fatti esattamente come fa Bosio nella sua prima dichiarazione spontanea resa ai poliziotti che l’avevano arrestato su “segnalazione” delle due attiviste della Ong “Bahay Tulunan”. Le quali a loro volta parlano solo di “atteggiamento strano”, “contesto sospetto”. “Ne vediamo di tutti i colori qui – ci ha spiegato la presidente dell’associazione e una delle testimoni d’accusa. Si tratta di Lily Flordalis, che siamo andati a trovare nella sede dell’associazione, in una zona degradata alla periferia di Manila dove svolge un encomiabile lavoro di aggregazione e educazione – e siamo convinti che prevenzione e rigorosa applicazione delle leggi siano fondamentali per sconfiggere questa immensa piaga sociale”.

E pur non volendo parlare direttamente della vicenda, ammette: “Io penso che l’ambasciatore abbia violato la legge, che punisce chiunque si accompagni, e tanto più trasporti altrove, dei minori senza legittima e provata autorizzazione. Il resto sarà la giustizia ad appurarlo. Per quanto mi riguarda, non ho alcun intento persecutorio. Penso di aver fatto semplicemente il mio dovere. Se tutti lo facessero, eviteremo, sul nascere centinaia di tragedie”. Non fa una piega: e sbagliano, a mio avviso, quelli che pensano a delle invasate in malafede, un po’ bacchettone, in cerca di pubblicità e magari finanziamenti per la loro associazione.

Da quel poco che abbiamo potuto osservare, l’associazione esiste dal 1997, è ben radicata sul territorio e svolge un ottimo lavoro. Lo stesso Bosio quando ne parliamo, ammette: “Anch’io credo nella loro, quanto meno iniziale, buona fede. Per questo ho accettato di spiegare tranquillamente la mia situazione, e di recarmi volontariamente presso il posto di polizia”. Gli faccio presente che tuttavia, quando le abbiamo fatto vedere l’enorme mobilitazione che c’è stata su Facebook, con oltre 900 persone che hanno espresso solidarietà e testimoniato di casi specifici in cui l’ambasciatore aveva svolto opera di volontariato a favore di bambini, la Flordalis non sembrava troppo colpita. Anzi. “I pedofili sono difficili da riconoscere. Possono essere dappertutto. E operano sui tempi lunghi. Non è facile scoprirli. E’ un reato continuato, che va estirpato sul nascere”. Bosio è d’accordo, ma ribadisce la sua assoluta innocenza. “Vi assicuro, non vedo l’ora di uscire e chiarire tutto con queste persone. Mi piacerebbe, se lo vorranno, partire da questa drammatica esperienza e magari lavorare con loro. Sarebbe il modo migliore di chiudere questa terribile vicenda”.

E passiamo al secondo, ancor più doloroso ed inquietante, se vogliamo, aspetto della nostra inchiesta. Dai verbali della polizia, e dalle dichiarazioni dell’ambasciatore Bosio, risulta che dal momento in cui è stato fermato, le sei di sera del 5 aprile, passano oltre 15 ore prima che lo stesso riusca a mettersi in contatto con le nostre autorità diplomatiche. D’accordo, è un sabato sera. Ma appunto, è un’emergenza. E le emergenze in genere avvengono il sabato notte, durante i giorni festivi, non alle deici di mattina di un giorno feriale. Dovrebbero esserci dei numeri da chiamare. Che infatti sono scritti sui siti delle varie ambasciate. E sulla homepage della Farnesina. Solo che spesso non funzionano, non sono aggiornati. La polizia filippina è particolarmente disponibile, consente a Bosio non solo di accedere a internet, ma anche di usare liberamente il telefono. Bosio lo usa, e chiama l’unità di crisi, a Roma. Gli danno una serie di numeri, compreso quello di emergenza. Bosio li compone uno dopo l’altro, aiutato, nell’operazione, dai poliziotti. E’ scritto nel verbale, a firma del colonnello Noel Calderon Alinho, comandante della caserma: “Questo ufficio ha provveduto a chiamare numerose volte i numeri dell’ambasciata italiana, compreso il telefono di emergenza, senza peraltro ricevere risposta”, si legge nel documento.

Proprio una bella figura: provate ad immaginarvi di essere al posto di Bosio. Il quale tuttavia si rassegna, per la notte, fiducioso che la mattina dopo sarebbe riuscito a contattare i suoi colleghi. Ma dovrà aspettare sino all’ora di pranzo, quando finalmente, rintracciato il numero di casa dell’ambasciatore italiano a Manila, Massimo Roscigno, riesce a parlarci. “Si è subito scusato, per carità – spiega Bosio – dicendo che aveva lasciato il telefonino personale a casa, e la sera era fuori”. E quello di emergenza? Quando deve essere in funzione, se non di sabato notte? Il ritardo con il quale Bosio è riuscito finalmente a contattare le nostre autorità ha avuto effetti disastrosi per la sua difesa. L’avvocato suggerito dall’ambasciata, infatti, pur essendo una luminare del diritto di famiglia, è una “civilista”, per sua stessa ammissione non esperta di procedura penale.

E’ domenica sera e quando Bosio riesce finalmente a contattarla, dalla caserma dove è detenuto e dove un difensore d’ufficio locale che gli è stato comunque affiancato gli sta sottoponendo un documento da firmare, gli dice, senza nemmeno farsi leggere il contenuto del foglio: “Firmi, firmi, firmi tutto quello che le suggerisce il collega”. Bosio firma. E mal gliene incoglie: è l’accettazione formale di volersi sottoporre alle indagini preliminari, un discusso istituto locale che prevede la rinuncia ai diritti dell’indiziato previsti dall’art.145, e che prevede la scarcerazione entro 72 ore se l’accusa non viene formalizzata. L’avvocato d’ufficio evidentemente non lo sa, o si scorda di dirglielo, e così pure la “luminare” , che dovendosi preparare per una importante cerimonia non ha il tempo di andare a trovarlo in carcere. L’incubo, per Bosio, è cominciato, e non è ancora finito. Si dirà: se è colpevole, ben gli sta, per i pedofili, nessuna pietà. A parte che il diritto alla difesa è sacrosanto per tutti, compresi i responsabili dei crimini più odiosi ed efferati. Ma se Bosio fosse innocente? Possibile mai che alla Farnesina, compatta nel chiedere il rispetto del (presunto) diritto internazionale per i due marò non ci sia nessuno disposto a tutelare i diritti dell’evidentemete “presunto” colpevole Daniele Bosio?

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