Come dicevo nella prima parte di questo post, Matteo ha a cuore il job. Diamogli una mano, invece di criticarlo sempre 

Nella mia veste di cameriera, tra un apparecchio e uno sparecchio, ho pensato: diamo una mano a Matteo, prepariamogli qualche slide sulle riforme che vorremmo vedere. E immaginiamo i giovani non solo in qualità di apprendisti, ma anche di coraggiosi imprenditori di se stessi. Non ci hanno detto loro che il lavoro dobbiamo inventarcelo?

Riforma n. 4: artigiani, prego. Gli chef-patron, signori miei, sono artigiani: trasformano materia prima. Però per la legge vengono equiparati a commercianti. Adeguare status professionale e relativo trattamento contributivo. 

Riforma n. 5: la burocrazia del frigorifero

Cambiare posto a un frigorifero costa 400 euro. Spesso il progetto viene presentato prima che il ristorante sia vissuto. Poi ci si accorge che quel frigo lì sarebbe più funzionale là: troppo tardi! Cambiare posizione di un frigo all’interno di un ristorante costa 400 euro per la visura del geometra, obbligatoria.

Autocertificazione kafkiana della temperatura dei frigoriferi. la controllatina è di routine, ma possibile dover annotare tutte le temperature tutte le mattine? Perché non facciamo che si annotano solo le eventuali anomalie riscontrate, tipo “oggi 1° aprile scherzo da prete trovati frigoriferi rotti, buttiamo via lotto x e y”. Se le cose restano come sono, sembra giustificata la sensazione che la burocratizzazione dello chef serva a creare un ginepraio di norme difficilmente rispettabili, e a rimettere i lavoratori al “buon cuore” del funzionario di turno. È vero che tutto ciò calza a pennello in un sistema politico basato sulla ricattabilità, ma non si era detto che si voleva cambiare?

Riforma n. 6: distinguere gli opposti: piccolo-grande. Il legislatore dovrebbe, con sua buona grazia, accogliere la seguente verità, già applaudita da moltitudini di matematici: piccolo è diverso da grande. Ci sono ristoranti come MacDonald’s che usano semilavorati e procedimenti industriali, e ristoranti artigianali che trasformano direttamente, artigianalmente, la materia prima in loco. Distinguere i piccoli dai grandi, gli artigiani dai franchising, e adeguare trattamento e incentivi. Ricordarsi che se c’è qualcosa che dà lustro all’Italia è l’alta cucina, non certo la bassa politica. Sarebbe una mossa accorta nel lungo periodo aiutare a sopravvivere la prima, visto che non si riesce a spezzare le reni alla seconda.

Riforma n. 7: tracciabilità e idiozia. Storia vera con nomi di fantasia: la signora Paola fa un olio extra-vergine di oliva da sballo. Decide di condire i panini che prepara nel suo bar con il suo olio. Riceve una multa di 500 euro perché il suo olio, prodotto da lei stessa, non è tracciabile. Incredula, non si dà pace: se usa un olio industriale di qualità infinitamente inferiore, è tutto ok e nessuno la multa. Da allora riempie con il suo olio bottiglie nobilitate da etichette industriali con desinenze in –elli e -olli.

Matteo, la legislazione è fatta in maniera tale che quando uno chef fa assaggiare a un cliente una specialità del territorio, due volte su tre rischia la galera. Se invece apre buste di multinazionali (incluso l’olio o la vinaigrette già pronta in bustina), è tutto ok. Vedi riforma n.4: urge una chance per gli chef artigiani.

Riforma n. 8: mai abbattersi. Il pesce azzurro va abbattuto, per legge, e giustamente, per neutralizzare pericoli potenziali come l’anisakis. Affiancare i ristoratori in una campagna informativa per spiegare l’importanza dell’abbattimento e il concetto di pesce fresco versus pesce surgelato senza che al cliente venga la gastrite (“oddio mi sta dando da mangiare un surgelato?” “no signora, è stato pescato stanotte e abbattuto stamattina”).

Riforma n. 9: largo ai 14enni. Matteo, non ti sembra bizzarro? A 14 anni uno può legalmente poltrire tra letto e sofà tutto il giorno, diventare un’appendice dello smartphone o un accessorio del motorino, ma non può lavorare. Nemmeno come cameriere un paio d’orette in estate, quanto basta per espiare una bocciatura e/o per guadagnare la soddisfazione del proprio argent de poche. Anni fa, quando facevo ancora la giornalista, entrando in un ristorante venni accolta da camerieri poco più che bambini. Compitissimi, mi guidarono al tavolo, prodigandosi poi in un servizio impeccabile. Divenni una habituée. Quei ragazzini si sentivano orgogliosi, avevano un ruolo sociale, probabilmente aiutavano anche le famiglie. Erano ragazzi a bottega che diventavano adulti. Anche a questo serve il lavoro, Matteo: a crescere. Che poi magari finisce che a vent’anni apri con gli amici un ristorantino e produci Pil e delizie, invece di ingrossare le fila dei fuoricorso.

Riforma n. 10: la plonge, lavoro socialmente utile. Chiariamo che nei ristoranti i piatti si lavano a mano, la lavastoviglie serve solo a igienizzare. La plonge, ovvero il lavapiatti, è lavoro socialmente utile dotato di una sua estetica zen: la cura dei dettagli come cura dell’altro è concetto fine e sensibile. Apparenti dettagli (un cristallo che brilla, una posata lucidata con l’aceto) daranno salute, felicità e bellezza a chi ne gode in sala, e fanno del lavapiatti la persona più importante del ristorante. Questo per dire, Matteo: se a Cesano Boscone insorgono, te li prendiamo noi ristoratori i patatoni bollenti da rieducare. Te li rendiamo a fine estate perfettamente reinseriti, praticamente dei cittadini.

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